Foto profilo WhatsApp offensiva: è diffamazione.
Confermata la condanna di un uomo, finito sotto processo per i comportamenti tenuti nei confronti dell’ex compagna. I Giudici sottolineano anche la gravità della diffusione su WhatsApp di una foto profilo mirata ad offendere la donna.
Cass. pen., Sez. V, Ud. 23 Gennaio 2024 (dep. 24 Aprile 2024) n. 17141
I fatti
Foto profilo WhatsApp offensiva: è diffamazione.
Basta una foto offensiva impostata come profilo personale di WhatsApp per subire una condanna per diffamazione.
A finire sotto processo è un uomo, accusato di comportamenti non certo urbani tenuti nei confronti della donna con cui ha avuto una lunga relazione e da cui ha avuto anche un figlio. Nello specifico, gli viene contestato di avere perseguitato l’ex compagna e di averla offesa in maniera palese con una foto impostata sul profilo personale di WhatsApp.
Per i giudici di merito non ci sono dubbi: l’uomo è colpevole di atti persecutori e di diffamazione, reati commessi ai danni dell’ex compagna. Fondata, secondo i giudici, la tesi accusatoria, secondo cui l’uomo, da un lato, «ha cagionato alla persona offesa, con reiterate ingiurie e minacce ed altre condotte offensive, un grave e perdurante stato d’ansia, e ha ingenerato nella medesima persona il fondato timore per la propria incolumità personale, costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita» e, dall’altro, «ne ha offeso l’onore e la reputazione della persona offesa, divulgando una fotografia che la raffigurava», accompagnata da una frase offensiva.
Inutili le obiezioni sollevate dal difensore dell’uomo sotto processo. Anche per i Giudici di Cassazione, difatti, è sacrosanta la condanna per i reati di stalking e di diffamazione.
La decisione della Cassazione
Foto profilo WhatsApp offensiva: è diffamazione.
Per quanto concerne gli atti persecutori viene osservato che «il clima di conflittualità tra l’uomo e l’ex compagna», nonché «le aggressioni verbali dei familiari della donna» nei confronti dell’uomo e «gli ostacoli frapposti» dalla donna «all’esercizio del diritto dell’uomo di visitare la figlia» non possono assolutamente giustificare le condotte violente, le minacce, le offese e i danneggiamenti commessi dell’uomo. Anche perché «il contesto di litigiosità in cui sono maturate le condotte dell’uomo non era tale da determinare una posizione di sostanziale parità tra l’uomo e l’ex compagna, in ragione della gravità delle violenze, delle minacce e delle offese commesse dall’uomo e che hanno causato» all’epoca «nella vittima un grave stato d’ansia e di paura, che l’aveva costretta ad alterare le proprie abitudini di vita, non uscendo più di casa».
Per quanto riguarda la diffamazione, poi, i magistrati ritengono inverosimile la versione dell’uomo, il quale ha sostenuto di avere semplicemente compiuto un errore nell’impostare la foto incriminata come quella del proprio profilo su WhatsApp, e aggiungono che «la rimozione della foto non può privare di penale rilevanza il fatto e l’offesa già arrecata alla vittima».
Per chiudere il cerchio, i Giudici ricordano che «il reato di diffamazione si configura quando il messaggio può essere letto da più persone, anche se tra di esse vi è la persona offesa» e precisano che nella vicenda oggetto del processo «risulta evidente la divulgazione del messaggio offensivo, essendo il profilo WhatsApp dell’uomo accessibile quantomeno a tutti gli utenti del social network il cui contatto era inserito nella sua rubrica del telefono».
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Avv. Francesco Pavan