Pensione di reversibilità: il nuovo matrimonio non deve essere comunicato all’INPS
Deve escludersi che possa qualificarsi come indebita percezione di erogazioni pubbliche l’omessa comunicazione all’INPS del nuovo matrimonio, in quanto per la pensione di reversibilità sussiste un sistema informativo, il quale dà luogo alla cessazione del trattamento pensionistico, che prescinde dalla comunicazione da parte dell’interessato.
Cass. pen., sez. VI, ud. 14 gennaio 2025 (dep. 21 febbraio 2025), n. 7332
La sentenza in commento trae origine dalla vicenda dell' all'imputato condannato per il reato di cui all'art. 316 ter c.p. per aver omesso di dichiarare all'INPS il matrimonio contratto il 26 settembre 1987 così da poter continuare a percepire indebitamente la pensione di reversibilità della precedente moglie fino al 31 maggio 2019.
Avverso la sentenza veniva proposto ricorso in Cassazione rilevando che il Tribunale aveva ritenuto sussistente il reato contestato in virtù di un presunto obbligo in capo al ricorrente di comunicare all'INPS la mutazione del proprio stato civile incidente sul diritto alla pensione. La Corte di appello respingeva il gravame ritenendo che l'art. 34 l. n. 903 del 1965 non esima il privato dal comunicare variazioni incidenti sul suo diritto, come previsto dal modulo standard con il quale è richiesta l'emissione della pensione. Il ricorrente evidenzia come il suddetto modulo non prevede alcun obbligo a carico del richiedente, anzi la normativa di settore prevede la ripetibilità delle somme versate dall'INPS non dovute solo se l'indebita percezione sia dovuta a dolo. La ripetizione non è comunque prevista in caso di omessa e incompleta segnalazione di fatti di cui l'INPS è già a conoscenza, come nel caso di specie, in quanto i Comuni sistematicamente informano l'ente di variazioni dello stato civile per matrimoni e morte.
Il ricorso è fondato. La Suprema Corte, in armonia con il consolidato orientamento giurisprudenziale, ribadisce che «le informazioni, la cui omissione può integrare la fattispecie di cui all'art. 316 ter c.p. devono essere dovute, devono cioè trovare fondamento in una richiesta espressa dell'ente erogatore o, comunque, risultare imposte dal principio di buona fede precontrattuale di cui all'art. 1337 c.c., ipotesi quest'ultima, concretamente invocabile in relazione ad una istruttoria finalizzata alla concessione di erogazioni pubbliche».
Ciò premesso, nel caso in cui si verifichi il nuovo matrimonio del beneficiario del trattamento pensionistico di reversibilità non sussiste alcun obbligo di comunicazione a carico di quest'ultimo. Sussiste invece, in capo al Comune, il quale deve trasmettere le comunicazioni relative ai matrimoni in via telematica all'INPS. ... Vedi altroVedi meno
LAVORATORE IN MALATTIA: LA FRUIZIONE DELLE FERIE NON GODUTE SOSPENDE IL PERIODO DI COMPORTO
Il lavoratore in malattia ha diritto alle ferie maturate ma non godute al fine di interrompere il calcolo del periodo di comporto. Il datore di lavoro, tuttavia, non è obbligato ad accettare la richiesta per motivi organizzativi validi che la ostacolano.
Cass. civ., sez. lav., ord., 20 gennaio 2025, n. 1373
La Suprema Corte, con la pronuncia in commento, ha sottolineato che il lavoratore in malattia ha diritto alle ferie maturate ma non godute al fine di interrompere il calcolo del periodo di comporto: non c'è, infatti, un’assoluta incompatibilità tra malattia e ferie.
Il lavoratore può richiedere le ferie, ma il datore di lavoro, in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, non è obbligato ad accettare la richiesta se ci sono motivi organizzativi validi che la ostacolano.
Nel caso di specie, veniva proposto ricorso per cassazione avverso la decisione dei giudici di merito che avevano dichiarato l’illegittimità e non la nullità del licenziamento del lavoratore per omessa pronuncia sulla precedente domanda di ferie.
Il motivo del ricorso con cui si evidenziava la necessità di una tutela reale piena è stato ritenuto non fondato. Per i Giudici, infatti, la Corte territoriale aveva correttamente valutato il complessivo comportamento delle parti secondo la sequenza istanza di ferie – revoca dell’istanza di ferie (per l’invio di un certificato medico) e stante l’assenza di un nuovo mutamento del titolo in senso contrario (da malattia a ferie), il periodo di comporto risultava in effetti superato.
La Corte di Cassazione, richiamando la giurisprudenza di legittimità in materia, ha, pertanto, respinto il ricorso del lavoratore assente per malattia. ... Vedi altroVedi meno
SCIOGLIMENTO DELLA COMUNIONE LEGALE IN SEDE DI ACCORDO DI SEPARAZIONE
«Sono da ritenersi pienamente valide, anche con riferimento ai beni che ricadono nella comunione legale, le clausole dell'accordo di separazione che riconoscano ad uno, o ad entrambi i coniugi, la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili nel complessivo riassetto degli interessi economico-patrimoniali, ovvero che ne operino il trasferimento a favore di uno di essi al fine di assicurarne il mantenimento».
Cass. civ., sez. I, ord., 3 febbraio 2025, n. 2546
La vicenda trae origine da un accordo di separazione coniugale, omologato dal tribunale, in cui due ex coniugi avevano concordato la divisione di un appartamento precedentemente in comunione legale, ripartendone la proprietà in quote diseguali (rispettivamente il 71% alla moglie e il 29% al marito) dopo la separazione. Successivamente, in seguito ad una controversia sulla divisione dell'appartamento, il Tribunale dichiarava la nullità della parte dell'accordo che prevedeva la ripartizione non equa dell'immobile, ravvisando la violazione dell'art. 210, comma 2, c.c.
La Cassazione, tuttavia, respinge questa argomentazione, confermando la piena validità delle clausole dell'accordo di separazione che regolano la proprietà esclusiva dei beni, inclusi quelli soggetti alla comunione legale: ciò in base al presupposto per cui, una volta sciolta la comunione legale con la separazione consensuale, «rientra nella piena autonomia negoziale delle parti disciplinare gli aspetti economico-patrimoniali - estranei agli obblighi ex lege riguardanti la prole, in relazione ai quali l'autonomia delle parti contraenti incontra limiti - con l'accordo di separazione omologato.
Di conseguenza, in sede di accordo di separazione, «le parti possono liberamente disporre dei beni in comunione al fine di regolare i rapporti economici della coppia e possono prevedere una ripartizione del bene immobile in comunione legale per quote non egalitarie nell'ambito delle reciproche attribuzioni patrimoniali, in vista della successiva divisione, senza che ricorra alcuna ipotesi di nullità». ... Vedi altroVedi meno
Mantenimento figli maggiorenni: il genitore collocatario può decidere di tenere il figlio in casa invece che versare il mantenimento?
La decisione di accogliere e mantenere il figlio in casa non può integrare una modalità alternativa di adempimento dell’obbligazione che può scegliere unilateralmente il genitore obbligato, costituendo, semmai, un elemento da valutare, ove esistente, ai fini della quantificazione dell’assegno ai sensi dell’art. 337-ter, comma 4, c.c.
Cass. civ., sez. I, ord., 10 febbraio 2025, n. 3329
Nell'aprile del 2020 un ragazzo ventiduenne, studente universitario che viveva da solo, avviava un procedimento nei confronti della di lui madre con il quale chiedeva al Tribunale di Torino di condannare la signora a corrispondergli un contributo al mantenimento. Con sentenza emessa nel 2023 il Tribunale, accogliendo integralmente la domanda del ragazzo, condannava la madre a corrispondere al figlio a titolo di contributo al mantenimento l'assegno mensile di € 900,00 oltre al 50% delle spese straordinarie. Lo stesso Tribunale confermava inoltre, l'onere in capo al padre del ragazzo di continuare a versare a quest'ultimo l'importo di€ 1.082,00 a titolo di contributo al di lui mantenimento oltre al restante 50% delle spese straordinarie.
Avverso la decisione di primo grado la signora proponeva appello avanti la Corte d'Appello che in parziale accoglimento dell'impugnazione, disponeva la revoca della condanna della madre a corrispondere al figlio l'importo mensile a titolo di contributo al mantenimento, confermando invece, il solo obbligo della stessa a corrispondere al figlio il 50% delle spese straordinarie. Secondo i giudici di secondo grado, tenuto conto che l'obbligazione alimentare assume aspetti di obbligazione alternativa per cui sussiste la possibilità dell'obbligato di scegliere tra la corresponsione di un assegno e l'accoglimento della persona nella propria casa, il figlio non poteva richiedere alla madre il contributo al mantenimento perché la signora non aveva avvallato la scelta del figlio di abbandonare la casa familiare materna per andare a vivere da solo.
Avverso la decisione di secondo grado il ragazzo proponeva ricorso in Cassazione lamentando la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ove la Corte territoriale aveva affermato che l'assegno di mantenimento richiesto avesse esclusivamente natura alimentare e che visto che la madre, aveva proposto al figlio una modalità differente per porre rimedio al suo stato di bisogno, il ragazzo non poteva vantare il diritto all'assegno. Secondo infatti, il ricorrente il contributo al mantenimento del figlio maggiorenne era diverso dall'assegno alimentare per natura e presupposti.
La Corte di Cassazione riprendendo l'ormai consolidata giurisprudenza in punto contributo al mantenimento dei figli, ricorda che l'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne e non economicamente autosufficiente è differente, per finalità e presupposti, dall'obbligo alimentare e per tale motivo al primo non può essere applicata la disciplina prevista per l'adempimento dell'obbligazione alimentare. Conseguentemente pertanto, il genitore obbligato a mantenere il figlio non può scegliere unilateralmente di adempiere all'obbligo mediante accoglimento in casa del figlio, costituendo quest'ultimo fatto, semmai, un elemento da valutare ai fini della quantificazione della quantificazione dell'assegno. ... Vedi altroVedi meno
A CHE TITOLO RISPONDE LA SOCIETA' DI TRASPORTI PER LE VIOLAZIONI COMMESSE DAL PROPRIO DIPENDENTE?
In caso di violazione del Codice della Strada da parte di un autista di una società di trasporti, le imprese sono responsabili non solo di dotare i veicoli di tachigrafi funzionanti, ma anche di organizzare le attività dei conducenti affinché rispettino la normativa vigente.
Cass. civ., sez. II, ord., 25 gennaio 2025, n. 1802
La vicenda giunta in Cassazione riguardava una violazione del Codice della Strada: in particolare, la Polizia Stradale di Lucca elevava nei confronti di una società di trasporti verbale di contestazione in ordine alla violazione dell'art. 179, c. 2, del Codice della Strada dal momento che un suo dipendente aveva circolato dalle 6:18 alle 8:08 senza avere inserito la carta tachigrafa nel tachigrafo digitale.
La società proponeva allora opposizione innanzi al Giudice di Pace, deducendo che il conducente non era riuscito ad inserire la scheda e, per via dell'anomalia tecnica, aveva compilato la scrittura manuale sostitutiva. L'opposizione non veniva, tuttavia, accolta dal Giudice di Pace, né in appello dal Tribunale.
La Suprema Corte ha innanzitutto ricordato che secondo l'art. 179, c. 2, Codice della Strada, nella versione ratione temporis applicabile, chiunque circoli con un veicolo privo di cronotachigrafo, oppure con un veicolo che ha un cronotachigrafo non conforme alle norme o non funzionante, o non inserisca il foglio di registrazione o la scheda del conducente, è soggetto a una sanzione amministrativa che va da € 849 a € 3.396. In caso di violazione delle norme sui cronotachigrafi, l'art. 174, c.4, del Codice della Strada richiama le normative europee, per cui le violazioni del Regolamento CE n. 561/2006 sia in materia di tutela di lavoratori addetto all'autotrasporto, sia in materia di sicurezza stradale, rilevano come infrazioni del Codice della Strada, con la conseguente applicabilità della relativa disciplina.
I Giudici hanno, poi, continuato precisando che il citato art. 174 del Codice della Strada, in attuazione di quanto stabilito dal suddetto Regolamento, prevede per i datori di lavoro dei conducenti, sia una responsabilità per fatto proprio derivante dall'inadempimento degli obblighi gravanti direttamente sugli stessi, sia una responsabilità solidale per le violazioni commesse dai propri dipendenti.
Tale disciplina mira a garantire regole uniformi sulla responsabilità delle imprese di trasporto e dei conducenti in caso di violazioni: le imprese sono responsabili non solo di dotare i veicoli di tachigrafi funzionanti ma anche di organizzare le attività dei conducenti affinché rispettino la normativa vigente. ... Vedi altroVedi meno
CONDANNATA LA MADRE CHE FALSIFICA LA FIRMA DEL PADRE PER ISCRIVERE LA FIGLIA A SCUOLA
La falsa sottoscrizione compiuta dalla madre veniva accertata, in primo grado, come funzionale all’iscrizione della figlia presso l’Istituto scolastico, acquistando valore determinante e potendo, di certo, rientrare nella nozione di atto pubblico ormai pacifica in giurisprudenza.
Cass. pen., sez. V, ud. 17 dicembre 2024 (dep. 30 gennaio 2025), n. 3880
Il caso di specie si incentra sulla condanna emessa nei riguardi di una donna per il delitto di cui agli articoli 476 e 482 c.p. poiché apponeva falsa sottoscrizione a nome dell'altro genitore, attestando falsamente il suo consenso all'iscrizione della figlia minore presso l'Istituto da lei prescelto.
Questa proponeva ricorso per cassazione. In particolare deduceva l'insussistenza del falso, atteso che il modulo con la firma apocrifa non aveva determinato la formazione di alcun atto visto che la domanda a quell'istituto scolastico non si era mai concretizzata nella relativa iscrizione.
Per la Suprema Corte il primo motivo è inammissibile poiché del tutto irrilevante la frequenza, di fatto, di altro istituto scolastico da parte della minore in quanto «in tema di falso documentale rientrano nella nozione di atto pubblico anche gli atti interni, ovvero quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, nonché quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale ponendosi quale necessario presupposto di momenti procedurali successivi». Nel caso di specie infatti, la falsa sottoscrizione era funzionale all'iscrizione della figlia all'istituto scolastico acquisendo valore determinante. ... Vedi altroVedi meno
#SanDonà – Camera Avvocati: «Rafforzare i presidi di giustizia sul territorio». Teso: «Una Cittadella della giustizia nell'ex cantina sociale di porta nuova»
La Camera degli Avvocati di San Donà di Piave riafferma il proprio impegno nel mantenimento e nel potenziamento dei servizi giudiziari locali. In risposta ai recenti articoli apparsi sulla stampa, l’avv. Victor Rampazzo, presidente della Camera degli Avvocati di San Donà di Piave, sottolinea come «la comunità forense sandonatese sia sempre stata favorevole al mantenimento del Tribunale di San Donà di Piave. Alla vigilia della chiusura delle sezioni distaccate durante il mandato del Ministro Severino nel Governo Monti, la Camera degli Avvocati presentò al Ministro uno studio realizzato dalla Facoltà di Statistica dell’Università di Udine, evidenziando che il Tribunale di San Donà possedeva tutte le caratteristiche per essere qualificato come Tribunale Ordinario e non come semplice sezione distaccata. Oggi se si intende giustificare la riapertura di un Tribunale come quello di Bassano, ex sezione distaccata, per il carico di lavoro, sarebbe coerente rivedere i parametri per la riapertura di altri uffici giudiziari, come Tribunali Ordinari o quantomeno come sezioni distaccate».
In ogni caso, la Camera degli Avvocati di San Donà di Piave conferma il proprio impegno affinché vengano rafforzati i presidi di giustizia sul territorio, a partire dal mantenimento e dal potenziamento dell’Ufficio del Giudice di Pace. «Questo ufficio, di vitale importanza, ha visto la Camera degli Avvocati sempre in prima linea per difenderne la permanenza – precisa Rampazzo –. Tali presidi devono essere sostenuti non solo con l’aumento dell’organico, ma anche con l’individuazione di una nuova sede. La Camera degli Avvocati rimane pronta a sostenere qualsiasi iniziativa che vada nella direzione della tutela dei diritti e del rafforzamento dei servizi giudiziari nel territorio».
«Investire nella giustizia di prossimità, ossia avere magistrati e uffici giudiziari il più possibile vicini ai cittadini, anche fisicamente, è certamente una priorità di questa amministrazione – commenta il sindaco Alberto Teso –. Anche per questo stiamo lavorando per realizzare una nuova sede del giudice di pace, in quella che ci piacerebbe diventasse una Cittadella della giustizia nell'ex cantina sociale di porta nuova. Parlare di tribunale a San Donà, come giustamente ricorda la camera degli avvocati, avrebbe un senso non più riferendoci ad una sede distaccata di quella di Venezia, ma come tribunale autonomo. Cosa che avrebbe significato solo riproponendo l'idea di una nuova provincia della Venezia Orientale». ... Vedi altroVedi meno
EFFICACIA PROBATORIA DEI MESSAGGI WHATSAPP NEL PROCESSO CIVILE
Le chat di Whatsapp possono rientrare tra i mezzi di prova validamente utilizzabili nel processo? È possibile utilizzare i messaggi estrapolati da una “chat” mediante copia dei relativi “screenshot”? Fanno piena prova dei fatti?
Cass. civ., sez. II, ord., 17 gennaio 2025, n. 1254
In un procedimento monitorio relativo al pagamento dovuto per la fornitura e installazione di serramenti, la Suprema Corte ha avuto modo di pronunciarsi sull'utilizzo dei messaggi whatsapp come prova documentale.
Nello specifico, la società ricorrente lamenta la violazione degli artt. 20 e 23-quater d.lgs. n. 82/2005 (Codice dell'amministrazione digitale), per avere la Corte d'Appello valutato erroneamente le prove documentali e testimoniali in ordine all'accordo raggiunto per la fornitura e l'installazione dei serramenti, e per aver utilizzato a fini probatori la copia fotografica del messaggio whatsapp senza alcuna certezza sulla riconduzione al suo autore.
Sul punto, i Giudici precisano che i messaggi whatsapp e gli “sms” conservati nella memoria di un telefono cellulare sono utilizzabili quale prova documentale e, dunque, possono essere legittimamente acquisiti mediante la mera riproduzione fotografica, con la conseguente piena utilizzabilità dei messaggi estrapolati da una “chat” di whatsapp mediante copia dei relativi “screenshot”, tenuto conto del riscontro della provenienza e attendibilità degli stessi (Cass. n. 11197 del 27/04/2023).
Ne consegue che il messaggio di posta elettronica (c.d. e-mail) – e così i messaggi whatsapp – costituisce un documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privo di firma, «rientra tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c. e, pertanto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime» (ex multis, Cass. n. 19622 del 16/07/2024; Cass. n. 11584 del 30/04/2024; Cass. n. 30186 del 27/10/2021). ... Vedi altroVedi meno
ALCOLTEST: L'OMESSO AVVISO DI FARSI ASSISTERE DA UN DIFENSORE NON RILEVA IN CASO DI RIFIUTO DELL'ACCERTAMENTO.
Il procedimento volto a verificare lo stato di ebbrezza è in corso allorquando si registra il rifiuto dell’interessato di sottoporsi all’alcoltest, ma a questo punto, e nel momento stesso del rifiuto, viene integrato il fatto reato sanzionato dall’art. 186, comma 7 del Codice della Strada.
Cass. pen., sez. IV, ud. 4 dicembre 2024 (dep. 23 dicembre 2024), n. 47324
Il Tribunale di Torino assolveva l'imputata del reato di cui all'art. 186 bis, comma 6, in relazione all'art. 186, comma 2, lett. c) e) del Codice della Strada, 187, comma 8 del Codice della Strada, aggravato dall'essere il fatto commesso da persona minore degli anni 21 e neopatentata. Secondo la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito, l'imputata veniva coinvolta in un sinistro stradale per avere tamponato la vettura che la precedeva, fermatasi per lasciar passare un pedone. Condotta presso l'ospedale a causa del trauma subito, veniva raggiunta dalla polizia municipale, la quale richiedeva gli esami medici finalizzati a verificare il tasso alcolemico e i livelli tossicologici alla quale si rifiutava di sottoporsi. Il Tribunale riteneva però, che l'illecito penale non poteva perfezionarsi in quanto mancava dell'avviso al difensore, aderendo all'orientamento giurisprudenziale secondo cui è applicabile la disciplina contenuta nell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. anche per la configurabilità del rifiuto. Inoltre, considerava non integrata alcuna ipotesi di reato sia perché la richiesta di accertamento sanitario non veniva rivolta all'interessata dalla PG, ma dal personale medico, così esulando dalla fattispecie legale, sia perché non poteva considerarsi accertamento eseguito nell'ambito di un necessario protocollo sanitario poiché non risultavano necessarie cure nei confronti dell'incidentata.
Il Pubblico Ministero ricorreva per cassazione.
La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato, ricordando infatti, che all'indirizzo giurisprudenziale richiamato dalla sentenza impugnata si è contrapposto un successivo, ormai consolidato orientamento, a mente del quale l'obbligo di dare avviso al conducente della facoltà di farsi assistere da un difensore per l'attuazione dell'alcoltest non sussiste in caso di rifiuto di sottoposti all'accertamento.
I giudici chiariscono che l'avvertimento di cui all'art. 114 disp. att., cod. proc. pen. «è previsto nell'ambito del procedimento volto a verificare lo stato di ebbrezza e che l'eventuale presenza del difensore è finalizzata a garantire che il compimento dell'atto in questione, in quanto a sorpresa e non ripetibile, sia condotto nel rispetto dei diritti della persona sottoposta alle indagini».
Inoltre, è altrettanto consolidato il principio secondo cui, in tema di guida in stato di ebbrezza, la violazione dell'obbligo di dare avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia al conducente da sottoporre a prelievo presso una struttura sanitaria, finalizzato all'accertamento del tasso alcolemico esclusivamente su richiesta della polizia giudiziaria, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio. Non rilevando quindi, i giudici eccepita alcuna nullità connessa alla mancanza dell'avviso da parte dell'interessato, risulta integrata la fattispecie di cui all'art. 186, comma 5, Codice della Strada nonché art. 187, comma 4, Codice della Strada. ... Vedi altroVedi meno
SCREENSHOTS DI MESSAGGI WHATSAPP: INUTILIZZABILI SENZA L'ACQUISIZIONE CON LE FORME DEL SEQUESTRO DI CORRISPONDENZA
In tema di mezzi di prova, sono affetti da inutilizzabilità patologica, in considerazione della loro natura di corrispondenza, i messaggi WhatsApp acquisiti, in violazione dell'art. 254 c.p.p., mediante screenshots eseguiti dalla polizia giudiziaria, di propria iniziativa e senza ragioni di urgenza, in assenza di un decreto di sequestro del pubblico ministero.
Cass. pen., sez. VI, ud. 11 settembre 2024 (dep. 28 ottobre 2024), n. 39548
L'imputato, condannato per il delitto di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990, ha proposto ricorso in Cassazione eccependo l'inutilizzabilità degli screenshots del telefono cellulare relativi a conversazioni effettuate tramite WhatsApp, trattandosi di una prova acquisita contra legem e in violazione della segretezza della corrispondenza, giacché non era stato disposto il sequestro del dispositivo-contenitore e in assenza di una rituale estrazione del suo contenuto tramite copia forense, con la conseguenza che la riproduzione fotografica dei messaggi non consente di avere la certezza dell'identità del mittente, del destinatario e del contenuto stesso del messaggio.
La Cassazione ha ritenuto fondato tale motivo, muovendo dal presupposto che i messaggi inviati o ricevuti tramite WhatsApp non hanno natura di documenti, dovendo ricondursi al più ampio concetto di corrispondenza tutelata dall'art. 15 Cost., non potendo essere acquisiti attraverso una mera riproduzione fotografica, ma la loro acquisizione deve avvenire secondo le forme previste dall'art. 254 c.p.p. per il sequestro della corrispondenza.
La pronuncia in commento ha stabilito che i messaggi di posta elettronica, i messaggi WhatsApp, le e-mail e gli sms conservati nella memoria di un dispositivo elettronico costituiscono corrispondenza anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo o per altra causa, essi non abbiano perso ogni carattere di attualità, in rapporto all'interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento «storico», sicché, fino a quel momento, la loro acquisizione deve avvenire secondo le forme previste dall'articolo 254 c.p.p. per il sequestro della corrispondenza. ... Vedi altroVedi meno
In questi casi, generalmente significa che il proprietario ha condiviso il contenuto solo con un gruppo ristretto di persone, ha modificato chi può vederlo oppure lo ha eliminato.
INFORTUNIO CALCISTICO: LE REGOLE PER IL RISARCIMENTO DEI DANNI SOFFERTI DAL CALCIATORE AMATORIALE
In caso di infortunio durante una partita di calcio amatoriale, il giocatore può richiedere il risarcimento danni all’organizzatore per responsabilità contrattuale ma non invocare la responsabilità del Comune ex art. 2051 c.c. per l’insufficiente illuminazione del campo.
Cass. civ., sez. III, ord., 18 ottobre 2024, n. 27069
Il calciatore, finito in ospedale per un'operazione alla mandibola fratturata durante il match sportivo, denunciava la scarsa illuminazione del campo da calcio e l'assenza di un contratto di assicurazione che l'Associazione gli aveva garantito. Venivano, quindi, citati in giudizio il Comune per responsabilità extracontrattuale ex art. 2051 c.c. e l'Associazione per responsabilità contrattuale ai sensi dell'art. 2043 c.c.
La Suprema Corte ha stabilito che, mentre il Comune poteva effettivamente non essere considerato responsabile per l'impianto di illuminazione, quanto stabilito rispetto al risarcimento danni ex art. 2043 c.c. dovesse essere rivalutato.
Infatti, concentrandosi sull'errore di diritto della Corte d'Appello in materia di onere della prova, la Cassazione ha evidenziato che, vertendosi in ambito di responsabilità contrattuale, «al creditore non può essere posto alcun altro onere che non sia quello di dimostrare l'esistenza del contratto (nella specie, cioè, l'esistenza dell'impegno a stipulare una polizza assicurativa) e l'inadempimento del debitore. Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva dato per dimostrato il fatto che il torneo di calcio era stato disputato dai partecipanti nella convinzione di essere coperti da apposita assicurazione, aggiungendo che l'organizzatrice del torneo aveva fornito apposite «rassicurazioni» ai giocatori circa il fatto che una parte della quota di iscrizione sarebbe stata destinata, appunto, alla stipula del contratto di assicurazione (nei fatti, mai concluso). Partendo da tale ricostruzione in fatto, la Corte d'Appello aveva concluso che «l'attore avrebbe dovuto fornire riscontro probatorio del beneficio che avrebbe tratto se una polizza assicurativa fosse stata effettivamente stipulata», addossando, dunque, al danneggiato un adempimento probatorio di impossibile soddisfacimento. La Cassazione ha, pertanto, accolto il motivo di ricorso legato al suddetto errore di diritto cassando la sentenza impugnata. ... Vedi altroVedi meno
Pavan & Girotto Studio Legale
Pensione di reversibilità: il nuovo matrimonio non deve essere comunicato all’INPS
Deve escludersi che possa qualificarsi come indebita percezione di erogazioni pubbliche l’omessa comunicazione all’INPS del nuovo matrimonio, in quanto per la pensione di reversibilità sussiste un sistema informativo, il quale dà luogo alla cessazione del trattamento pensionistico, che prescinde dalla comunicazione da parte dell’interessato.
Cass. pen., sez. VI, ud. 14 gennaio 2025 (dep. 21 febbraio 2025), n. 7332
La sentenza in commento trae origine dalla vicenda dell' all'imputato condannato per il reato di cui all'art. 316 ter c.p. per aver omesso di dichiarare all'INPS il matrimonio contratto il 26 settembre 1987 così da poter continuare a percepire indebitamente la pensione di reversibilità della precedente moglie fino al 31 maggio 2019.
Avverso la sentenza veniva proposto ricorso in Cassazione rilevando che il Tribunale aveva ritenuto sussistente il reato contestato in virtù di un presunto obbligo in capo al ricorrente di comunicare all'INPS la mutazione del proprio stato civile incidente sul diritto alla pensione.
La Corte di appello respingeva il gravame ritenendo che l'art. 34 l. n. 903 del 1965 non esima il privato dal comunicare variazioni incidenti sul suo diritto, come previsto dal modulo standard con il quale è richiesta l'emissione della pensione.
Il ricorrente evidenzia come il suddetto modulo non prevede alcun obbligo a carico del richiedente, anzi la normativa di settore prevede la ripetibilità delle somme versate dall'INPS non dovute solo se l'indebita percezione sia dovuta a dolo.
La ripetizione non è comunque prevista in caso di omessa e incompleta segnalazione di fatti di cui l'INPS è già a conoscenza, come nel caso di specie, in quanto i Comuni sistematicamente informano l'ente di variazioni dello stato civile per matrimoni e morte.
Il ricorso è fondato.
La Suprema Corte, in armonia con il consolidato orientamento giurisprudenziale, ribadisce che «le informazioni, la cui omissione può integrare la fattispecie di cui all'art. 316 ter c.p. devono essere dovute, devono cioè trovare fondamento in una richiesta espressa dell'ente erogatore o, comunque, risultare imposte dal principio di buona fede precontrattuale di cui all'art. 1337 c.c., ipotesi quest'ultima, concretamente invocabile in relazione ad una istruttoria finalizzata alla concessione di erogazioni pubbliche».
Ciò premesso, nel caso in cui si verifichi il nuovo matrimonio del beneficiario del trattamento pensionistico di reversibilità non sussiste alcun obbligo di comunicazione a carico di quest'ultimo.
Sussiste invece, in capo al Comune, il quale deve trasmettere le comunicazioni relative ai matrimoni in via telematica all'INPS. ... Vedi altroVedi meno
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LAVORATORE IN MALATTIA: LA FRUIZIONE DELLE FERIE NON GODUTE SOSPENDE IL PERIODO DI COMPORTO
Il lavoratore in malattia ha diritto alle ferie maturate ma non godute al fine di interrompere il calcolo del periodo di comporto. Il datore di lavoro, tuttavia, non è obbligato ad accettare la richiesta per motivi organizzativi validi che la ostacolano.
Cass. civ., sez. lav., ord., 20 gennaio 2025, n. 1373
La Suprema Corte, con la pronuncia in commento, ha sottolineato che il lavoratore in malattia ha diritto alle ferie maturate ma non godute al fine di interrompere il calcolo del periodo di comporto: non c'è, infatti, un’assoluta incompatibilità tra malattia e ferie.
Il lavoratore può richiedere le ferie, ma il datore di lavoro, in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, non è obbligato ad accettare la richiesta se ci sono motivi organizzativi validi che la ostacolano.
Nel caso di specie, veniva proposto ricorso per cassazione avverso la decisione dei giudici di merito che avevano dichiarato l’illegittimità e non la nullità del licenziamento del lavoratore per omessa pronuncia sulla precedente domanda di ferie.
Il motivo del ricorso con cui si evidenziava la necessità di una tutela reale piena è stato ritenuto non fondato.
Per i Giudici, infatti, la Corte territoriale aveva correttamente valutato il complessivo comportamento delle parti secondo la sequenza istanza di ferie – revoca dell’istanza di ferie (per l’invio di un certificato medico) e stante l’assenza di un nuovo mutamento del titolo in senso contrario (da malattia a ferie), il periodo di comporto risultava in effetti superato.
La Corte di Cassazione, richiamando la giurisprudenza di legittimità in materia, ha, pertanto, respinto il ricorso del lavoratore assente per malattia. ... Vedi altroVedi meno
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SCIOGLIMENTO DELLA COMUNIONE LEGALE IN SEDE DI ACCORDO DI SEPARAZIONE
«Sono da ritenersi pienamente valide, anche con riferimento ai beni che ricadono nella comunione legale, le clausole dell'accordo di separazione che riconoscano ad uno, o ad entrambi i coniugi, la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili nel complessivo riassetto degli interessi economico-patrimoniali, ovvero che ne operino il trasferimento a favore di uno di essi al fine di assicurarne il mantenimento».
Cass. civ., sez. I, ord., 3 febbraio 2025, n. 2546
La vicenda trae origine da un accordo di separazione coniugale, omologato dal tribunale, in cui due ex coniugi avevano concordato la divisione di un appartamento precedentemente in comunione legale, ripartendone la proprietà in quote diseguali (rispettivamente il 71% alla moglie e il 29% al marito) dopo la separazione. Successivamente, in seguito ad una controversia sulla divisione dell'appartamento, il Tribunale dichiarava la nullità della parte dell'accordo che prevedeva la ripartizione non equa dell'immobile, ravvisando la violazione dell'art. 210, comma 2, c.c.
La Cassazione, tuttavia, respinge questa argomentazione, confermando la piena validità delle clausole dell'accordo di separazione che regolano la proprietà esclusiva dei beni, inclusi quelli soggetti alla comunione legale: ciò in base al presupposto per cui, una volta sciolta la comunione legale con la separazione consensuale, «rientra nella piena autonomia negoziale delle parti disciplinare gli aspetti economico-patrimoniali - estranei agli obblighi ex lege riguardanti la prole, in relazione ai quali l'autonomia delle parti contraenti incontra limiti - con l'accordo di separazione omologato.
Di conseguenza, in sede di accordo di separazione, «le parti possono liberamente disporre dei beni in comunione al fine di regolare i rapporti economici della coppia e possono prevedere una ripartizione del bene immobile in comunione legale per quote non egalitarie nell'ambito delle reciproche attribuzioni patrimoniali, in vista della successiva divisione, senza che ricorra alcuna ipotesi di nullità». ... Vedi altroVedi meno
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Mantenimento figli maggiorenni: il genitore collocatario può decidere di tenere il figlio in casa invece che versare il mantenimento?
La decisione di accogliere e mantenere il figlio in casa non può integrare una modalità alternativa di adempimento dell’obbligazione che può scegliere unilateralmente il genitore obbligato, costituendo, semmai, un elemento da valutare, ove esistente, ai fini della quantificazione dell’assegno ai sensi dell’art. 337-ter, comma 4, c.c.
Cass. civ., sez. I, ord., 10 febbraio 2025, n. 3329
Nell'aprile del 2020 un ragazzo ventiduenne, studente universitario che viveva da solo, avviava un procedimento nei confronti della di lui madre con il quale chiedeva al Tribunale di Torino di condannare la signora a corrispondergli un contributo al mantenimento.
Con sentenza emessa nel 2023 il Tribunale, accogliendo integralmente la domanda del ragazzo, condannava la madre a corrispondere al figlio a titolo di contributo al mantenimento l'assegno mensile di € 900,00 oltre al 50% delle spese straordinarie. Lo stesso Tribunale confermava inoltre, l'onere in capo al padre del ragazzo di continuare a versare a quest'ultimo l'importo di€ 1.082,00 a titolo di contributo al di lui mantenimento oltre al restante 50% delle spese straordinarie.
Avverso la decisione di primo grado la signora proponeva appello avanti la Corte d'Appello che in parziale accoglimento dell'impugnazione, disponeva la revoca della condanna della madre a corrispondere al figlio l'importo mensile a titolo di contributo al mantenimento, confermando invece, il solo obbligo della stessa a corrispondere al figlio il 50% delle spese straordinarie.
Secondo i giudici di secondo grado, tenuto conto che l'obbligazione alimentare assume aspetti di obbligazione alternativa per cui sussiste la possibilità dell'obbligato di scegliere tra la corresponsione di un assegno e l'accoglimento della persona nella propria casa, il figlio non poteva richiedere alla madre il contributo al mantenimento perché la signora non aveva avvallato la scelta del figlio di abbandonare la casa familiare materna per andare a vivere da solo.
Avverso la decisione di secondo grado il ragazzo proponeva ricorso in Cassazione lamentando la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ove la Corte territoriale aveva affermato che l'assegno di mantenimento richiesto avesse esclusivamente natura alimentare e che visto che la madre, aveva proposto al figlio una modalità differente per porre rimedio al suo stato di bisogno, il ragazzo non poteva vantare il diritto all'assegno.
Secondo infatti, il ricorrente il contributo al mantenimento del figlio maggiorenne era diverso dall'assegno alimentare per natura e presupposti.
La Corte di Cassazione riprendendo l'ormai consolidata giurisprudenza in punto contributo al mantenimento dei figli, ricorda che l'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne e non economicamente autosufficiente è differente, per finalità e presupposti, dall'obbligo alimentare e per tale motivo al primo non può essere applicata la disciplina prevista per l'adempimento dell'obbligazione alimentare. Conseguentemente pertanto, il genitore obbligato a mantenere il figlio non può scegliere unilateralmente di adempiere all'obbligo mediante accoglimento in casa del figlio, costituendo quest'ultimo fatto, semmai, un elemento da valutare ai fini della quantificazione della quantificazione dell'assegno. ... Vedi altroVedi meno
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A CHE TITOLO RISPONDE LA SOCIETA' DI TRASPORTI PER LE VIOLAZIONI COMMESSE DAL PROPRIO DIPENDENTE?
In caso di violazione del Codice della Strada da parte di un autista di una società di trasporti, le imprese sono responsabili non solo di dotare i veicoli di tachigrafi funzionanti, ma anche di organizzare le attività dei conducenti affinché rispettino la normativa vigente.
Cass. civ., sez. II, ord., 25 gennaio 2025, n. 1802
La vicenda giunta in Cassazione riguardava una violazione del Codice della Strada: in particolare, la Polizia Stradale di Lucca elevava nei confronti di una società di trasporti verbale di contestazione in ordine alla violazione dell'art. 179, c. 2, del Codice della Strada dal momento che un suo dipendente aveva circolato dalle 6:18 alle 8:08 senza avere inserito la carta tachigrafa nel tachigrafo digitale.
La società proponeva allora opposizione innanzi al Giudice di Pace, deducendo che il conducente non era riuscito ad inserire la scheda e, per via dell'anomalia tecnica, aveva compilato la scrittura manuale sostitutiva.
L'opposizione non veniva, tuttavia, accolta dal Giudice di Pace, né in appello dal Tribunale.
La Suprema Corte ha innanzitutto ricordato che secondo l'art. 179, c. 2, Codice della Strada, nella versione ratione temporis applicabile, chiunque circoli con un veicolo privo di cronotachigrafo, oppure con un veicolo che ha un cronotachigrafo non conforme alle norme o non funzionante, o non inserisca il foglio di registrazione o la scheda del conducente, è soggetto a una sanzione amministrativa che va da € 849 a € 3.396.
In caso di violazione delle norme sui cronotachigrafi, l'art. 174, c.4, del Codice della Strada richiama le normative europee, per cui le violazioni del Regolamento CE n. 561/2006 sia in materia di tutela di lavoratori addetto all'autotrasporto, sia in materia di sicurezza stradale, rilevano come infrazioni del Codice della Strada, con la conseguente applicabilità della relativa disciplina.
I Giudici hanno, poi, continuato precisando che il citato art. 174 del Codice della Strada, in attuazione di quanto stabilito dal suddetto Regolamento, prevede per i datori di lavoro dei conducenti, sia una responsabilità per fatto proprio derivante dall'inadempimento degli obblighi gravanti direttamente sugli stessi, sia una responsabilità solidale per le violazioni commesse dai propri dipendenti.
Tale disciplina mira a garantire regole uniformi sulla responsabilità delle imprese di trasporto e dei conducenti in caso di violazioni: le imprese sono responsabili non solo di dotare i veicoli di tachigrafi funzionanti ma anche di organizzare le attività dei conducenti affinché rispettino la normativa vigente. ... Vedi altroVedi meno
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CONDANNATA LA MADRE CHE FALSIFICA LA FIRMA DEL PADRE PER ISCRIVERE LA FIGLIA A SCUOLA
La falsa sottoscrizione compiuta dalla madre veniva accertata, in primo grado, come funzionale all’iscrizione della figlia presso l’Istituto scolastico, acquistando valore determinante e potendo, di certo, rientrare nella nozione di atto pubblico ormai pacifica in giurisprudenza.
Cass. pen., sez. V, ud. 17 dicembre 2024 (dep. 30 gennaio 2025), n. 3880
Il caso di specie si incentra sulla condanna emessa nei riguardi di una donna per il delitto di cui agli articoli 476 e 482 c.p. poiché apponeva falsa sottoscrizione a nome dell'altro genitore, attestando falsamente il suo consenso all'iscrizione della figlia minore presso l'Istituto da lei prescelto.
Questa proponeva ricorso per cassazione.
In particolare deduceva l'insussistenza del falso, atteso che il modulo con la firma apocrifa non aveva determinato la formazione di alcun atto visto che la domanda a quell'istituto scolastico non si era mai concretizzata nella relativa iscrizione.
Per la Suprema Corte il primo motivo è inammissibile poiché del tutto irrilevante la frequenza, di fatto, di altro istituto scolastico da parte della minore in quanto «in tema di falso documentale rientrano nella nozione di atto pubblico anche gli atti interni, ovvero quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, nonché quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale ponendosi quale necessario presupposto di momenti procedurali successivi».
Nel caso di specie infatti, la falsa sottoscrizione era funzionale all'iscrizione della figlia all'istituto scolastico acquisendo valore determinante. ... Vedi altroVedi meno
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#SanDonà – Camera Avvocati: «Rafforzare i presidi di giustizia sul territorio». Teso: «Una Cittadella della giustizia nell'ex cantina sociale di porta nuova»
La Camera degli Avvocati di San Donà di Piave riafferma il proprio impegno nel mantenimento e nel potenziamento dei servizi giudiziari locali. In risposta ai recenti articoli apparsi sulla stampa, l’avv. Victor Rampazzo, presidente della Camera degli Avvocati di San Donà di Piave, sottolinea come «la comunità forense sandonatese sia sempre stata favorevole al mantenimento del Tribunale di San Donà di Piave. Alla vigilia della chiusura delle sezioni distaccate durante il mandato del Ministro Severino nel Governo Monti, la Camera degli Avvocati presentò al Ministro uno studio realizzato dalla Facoltà di Statistica dell’Università di Udine, evidenziando che il Tribunale di San Donà possedeva tutte le caratteristiche per essere qualificato come Tribunale Ordinario e non come semplice sezione distaccata.
Oggi se si intende giustificare la riapertura di un Tribunale come quello di Bassano, ex sezione distaccata, per il carico di lavoro, sarebbe coerente rivedere i parametri per la riapertura di altri uffici giudiziari, come Tribunali Ordinari o quantomeno come sezioni distaccate».
In ogni caso, la Camera degli Avvocati di San Donà di Piave conferma il proprio impegno affinché vengano rafforzati i presidi di giustizia sul territorio, a partire dal mantenimento e dal potenziamento dell’Ufficio del Giudice di Pace.
«Questo ufficio, di vitale importanza, ha visto la Camera degli Avvocati sempre in prima linea per difenderne la permanenza – precisa Rampazzo –. Tali presidi devono essere sostenuti non solo con l’aumento dell’organico, ma anche con l’individuazione di una nuova sede.
La Camera degli Avvocati rimane pronta a sostenere qualsiasi iniziativa che vada nella direzione della tutela dei diritti e del rafforzamento dei servizi giudiziari nel territorio».
«Investire nella giustizia di prossimità, ossia avere magistrati e uffici giudiziari il più possibile vicini ai cittadini, anche fisicamente, è certamente una priorità di questa amministrazione – commenta il sindaco Alberto Teso –. Anche per questo stiamo lavorando per realizzare una nuova sede del giudice di pace, in quella che ci piacerebbe diventasse una Cittadella della giustizia nell'ex cantina sociale di porta nuova.
Parlare di tribunale a San Donà, come giustamente ricorda la camera degli avvocati, avrebbe un senso non più riferendoci ad una sede distaccata di quella di Venezia, ma come tribunale autonomo.
Cosa che avrebbe significato solo riproponendo l'idea di una nuova provincia della Venezia Orientale». ... Vedi altroVedi meno
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EFFICACIA PROBATORIA DEI MESSAGGI WHATSAPP NEL PROCESSO CIVILE
Le chat di Whatsapp possono rientrare tra i mezzi di prova validamente utilizzabili nel processo? È possibile utilizzare i messaggi estrapolati da una “chat” mediante copia dei relativi “screenshot”? Fanno piena prova dei fatti?
Cass. civ., sez. II, ord., 17 gennaio 2025, n. 1254
In un procedimento monitorio relativo al pagamento dovuto per la fornitura e installazione di serramenti, la Suprema Corte ha avuto modo di pronunciarsi sull'utilizzo dei messaggi whatsapp come prova documentale.
Nello specifico, la società ricorrente lamenta la violazione degli artt. 20 e 23-quater d.lgs. n. 82/2005 (Codice dell'amministrazione digitale), per avere la Corte d'Appello valutato erroneamente le prove documentali e testimoniali in ordine all'accordo raggiunto per la fornitura e l'installazione dei serramenti, e per aver utilizzato a fini probatori la copia fotografica del messaggio whatsapp senza alcuna certezza sulla riconduzione al suo autore.
Sul punto, i Giudici precisano che i messaggi whatsapp e gli “sms” conservati nella memoria di un telefono cellulare sono utilizzabili quale prova documentale e, dunque, possono essere legittimamente acquisiti mediante la mera riproduzione fotografica, con la conseguente piena utilizzabilità dei messaggi estrapolati da una “chat” di whatsapp mediante copia dei relativi “screenshot”, tenuto conto del riscontro della provenienza e attendibilità degli stessi (Cass. n. 11197 del 27/04/2023).
Ne consegue che il messaggio di posta elettronica (c.d. e-mail) – e così i messaggi whatsapp – costituisce un documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privo di firma, «rientra tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c. e, pertanto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime» (ex multis, Cass. n. 19622 del 16/07/2024; Cass. n. 11584 del 30/04/2024; Cass. n. 30186 del 27/10/2021). ... Vedi altroVedi meno
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ALCOLTEST: L'OMESSO AVVISO DI FARSI ASSISTERE DA UN DIFENSORE NON RILEVA IN CASO DI RIFIUTO DELL'ACCERTAMENTO.
Il procedimento volto a verificare lo stato di ebbrezza è in corso allorquando si registra il rifiuto dell’interessato di sottoporsi all’alcoltest, ma a questo punto, e nel momento stesso del rifiuto, viene integrato il fatto reato sanzionato dall’art. 186, comma 7 del Codice della Strada.
Cass. pen., sez. IV, ud. 4 dicembre 2024 (dep. 23 dicembre 2024), n. 47324
Il Tribunale di Torino assolveva l'imputata del reato di cui all'art. 186 bis, comma 6, in relazione all'art. 186, comma 2, lett. c) e) del Codice della Strada, 187, comma 8 del Codice della Strada, aggravato dall'essere il fatto commesso da persona minore degli anni 21 e neopatentata.
Secondo la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito, l'imputata veniva coinvolta in un sinistro stradale per avere tamponato la vettura che la precedeva, fermatasi per lasciar passare un pedone.
Condotta presso l'ospedale a causa del trauma subito, veniva raggiunta dalla polizia municipale, la quale richiedeva gli esami medici finalizzati a verificare il tasso alcolemico e i livelli tossicologici alla quale si rifiutava di sottoporsi.
Il Tribunale riteneva però, che l'illecito penale non poteva perfezionarsi in quanto mancava dell'avviso al difensore, aderendo all'orientamento giurisprudenziale secondo cui è applicabile la disciplina contenuta nell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. anche per la configurabilità del rifiuto. Inoltre, considerava non integrata alcuna ipotesi di reato sia perché la richiesta di accertamento sanitario non veniva rivolta all'interessata dalla PG, ma dal personale medico, così esulando dalla fattispecie legale, sia perché non poteva considerarsi accertamento eseguito nell'ambito di un necessario protocollo sanitario poiché non risultavano necessarie cure nei confronti dell'incidentata.
Il Pubblico Ministero ricorreva per cassazione.
La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato, ricordando infatti, che all'indirizzo giurisprudenziale richiamato dalla sentenza impugnata si è contrapposto un successivo, ormai consolidato orientamento, a mente del quale l'obbligo di dare avviso al conducente della facoltà di farsi assistere da un difensore per l'attuazione dell'alcoltest non sussiste in caso di rifiuto di sottoposti all'accertamento.
I giudici chiariscono che l'avvertimento di cui all'art. 114 disp. att., cod. proc. pen. «è previsto nell'ambito del procedimento volto a verificare lo stato di ebbrezza e che l'eventuale presenza del difensore è finalizzata a garantire che il compimento dell'atto in questione, in quanto a sorpresa e non ripetibile, sia condotto nel rispetto dei diritti della persona sottoposta alle indagini».
Inoltre, è altrettanto consolidato il principio secondo cui, in tema di guida in stato di ebbrezza, la violazione dell'obbligo di dare avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia al conducente da sottoporre a prelievo presso una struttura sanitaria, finalizzato all'accertamento del tasso alcolemico esclusivamente su richiesta della polizia giudiziaria, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio.
Non rilevando quindi, i giudici eccepita alcuna nullità connessa alla mancanza dell'avviso da parte dell'interessato, risulta integrata la fattispecie di cui all'art. 186, comma 5, Codice della Strada nonché art. 187, comma 4, Codice della Strada. ... Vedi altroVedi meno
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SCREENSHOTS DI MESSAGGI WHATSAPP: INUTILIZZABILI SENZA L'ACQUISIZIONE CON LE FORME DEL SEQUESTRO DI CORRISPONDENZA
In tema di mezzi di prova, sono affetti da inutilizzabilità patologica, in considerazione della loro natura di corrispondenza, i messaggi WhatsApp acquisiti, in violazione dell'art. 254 c.p.p., mediante screenshots eseguiti dalla polizia giudiziaria, di propria iniziativa e senza ragioni di urgenza, in assenza di un decreto di sequestro del pubblico ministero.
Cass. pen., sez. VI, ud. 11 settembre 2024 (dep. 28 ottobre 2024), n. 39548
L'imputato, condannato per il delitto di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990, ha proposto ricorso in Cassazione eccependo l'inutilizzabilità degli screenshots del telefono cellulare relativi a conversazioni effettuate tramite WhatsApp, trattandosi di una prova acquisita contra legem e in violazione della segretezza della corrispondenza, giacché non era stato disposto il sequestro del dispositivo-contenitore e in assenza di una rituale estrazione del suo contenuto tramite copia forense, con la conseguenza che la riproduzione fotografica dei messaggi non consente di avere la certezza dell'identità del mittente, del destinatario e del contenuto stesso del messaggio.
La Cassazione ha ritenuto fondato tale motivo, muovendo dal presupposto che i messaggi inviati o ricevuti tramite WhatsApp non hanno natura di documenti, dovendo ricondursi al più ampio concetto di corrispondenza tutelata dall'art. 15 Cost., non potendo essere acquisiti attraverso una mera riproduzione fotografica, ma la loro acquisizione deve avvenire secondo le forme previste dall'art. 254 c.p.p. per il sequestro della corrispondenza.
La pronuncia in commento ha stabilito che i messaggi di posta elettronica, i messaggi WhatsApp, le e-mail e gli sms conservati nella memoria di un dispositivo elettronico costituiscono corrispondenza anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo o per altra causa, essi non abbiano perso ogni carattere di attualità, in rapporto all'interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento «storico», sicché, fino a quel momento, la loro acquisizione deve avvenire secondo le forme previste dall'articolo 254 c.p.p. per il sequestro della corrispondenza. ... Vedi altroVedi meno
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In questi casi, generalmente significa che il proprietario ha condiviso il contenuto solo con un gruppo ristretto di persone, ha modificato chi può vederlo oppure lo ha eliminato.0 CommentiCommenta su Facebook
INFORTUNIO CALCISTICO: LE REGOLE PER IL RISARCIMENTO DEI DANNI SOFFERTI DAL CALCIATORE AMATORIALE
In caso di infortunio durante una partita di calcio amatoriale, il giocatore può richiedere il risarcimento danni all’organizzatore per responsabilità contrattuale ma non invocare la responsabilità del Comune ex art. 2051 c.c. per l’insufficiente illuminazione del campo.
Cass. civ., sez. III, ord., 18 ottobre 2024, n. 27069
Il calciatore, finito in ospedale per un'operazione alla mandibola fratturata durante il match sportivo, denunciava la scarsa illuminazione del campo da calcio e l'assenza di un contratto di assicurazione che l'Associazione gli aveva garantito. Venivano, quindi, citati in giudizio il Comune per responsabilità extracontrattuale ex art. 2051 c.c. e l'Associazione per responsabilità contrattuale ai sensi dell'art. 2043 c.c.
La Suprema Corte ha stabilito che, mentre il Comune poteva effettivamente non essere considerato responsabile per l'impianto di illuminazione, quanto stabilito rispetto al risarcimento danni ex art. 2043 c.c. dovesse essere rivalutato.
Infatti, concentrandosi sull'errore di diritto della Corte d'Appello in materia di onere della prova, la Cassazione ha evidenziato che, vertendosi in ambito di responsabilità contrattuale, «al creditore non può essere posto alcun altro onere che non sia quello di dimostrare l'esistenza del contratto (nella specie, cioè, l'esistenza dell'impegno a stipulare una polizza assicurativa) e l'inadempimento del debitore.
Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva dato per dimostrato il fatto che il torneo di calcio era stato disputato dai partecipanti nella convinzione di essere coperti da apposita assicurazione, aggiungendo che l'organizzatrice del torneo aveva fornito apposite «rassicurazioni» ai giocatori circa il fatto che una parte della quota di iscrizione sarebbe stata destinata, appunto, alla stipula del contratto di assicurazione (nei fatti, mai concluso).
Partendo da tale ricostruzione in fatto, la Corte d'Appello aveva concluso che «l'attore avrebbe dovuto fornire riscontro probatorio del beneficio che avrebbe tratto se una polizza assicurativa fosse stata effettivamente stipulata», addossando, dunque, al danneggiato un adempimento probatorio di impossibile soddisfacimento.
La Cassazione ha, pertanto, accolto il motivo di ricorso legato al suddetto errore di diritto cassando la sentenza impugnata. ... Vedi altroVedi meno
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