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Mantenimento al figlio revocato: l’ex coniuge deve restituire le somme percepite

Quando il figlio raggiunge l’autosufficienza economica, il genitore separato può chiedere la revoca dell’assegno di mantenimento e ottenere la restituzione delle somme versate a partire dalla data della domanda di revoca.

Trib. Roma, sez. I civile, sent., 20 agosto 2025, n. 11885

Nel caso in esame, durante un procedimento di divorzio, il padre chiedeva la cessazione dell'obbligo di mantenimento nei confronti del figlio maggiorenne, ormai economicamente indipendente, e la restituzione degli importi già corrisposti a tale titolo all'ex moglie.
Il Tribunale ha confermato che il padre non è più tenuto al mantenimento dal momento in cui il figlio diventa economicamente autonomo, e ha precisato che la revoca dell'assegno decorre dalla prima mensilità successiva al deposito dell'istanza di revoca.

Richiamando la giurisprudenza della Cassazione, il Tribunale ha ricordato che, in materia di revisione dell'assegno di mantenimento, «il diritto di un coniuge a percepirlo e il corrispondente obbligo dell'altro a versarlo, nella misura e nei modi già stabiliti con la sentenza di separazione o dalle condizioni omologate con decreto, conservano la loro efficacia sino a quando non intervenga la modifica di tali provvedimenti, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui, di fatto, sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell'assegno, sicché, in mancanza di specifiche disposizioni (...), la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza anticipata al momento dell'accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione».

Per quanto riguarda la restituzione delle somme, il Tribunale ha fatto riferimento alla sentenza n. 32914/2022 delle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui la richiesta di rimborso delle somme non dovute, conseguente a modifiche delle condizioni economiche durante il procedimento, è ammissibile se strettamente connessa agli accadimenti verificatisi nel corso del giudizio.
In questo caso, la domanda di restituzione è stata ritenuta legittima, trattandosi di una conseguenza diretta della revoca dell'assegno a seguito dell'autosufficienza sopravvenuta del figlio.

Di conseguenza, il Tribunale ha condannato la moglie a restituire all'ex marito le somme percepite a titolo di mantenimento del figlio a partire dalla data della domanda di revoca.
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Mantenimento al figlio revocato: l’ex coniuge deve restituire le somme percepite

Quando il figlio raggiunge l’autosufficienza economica, il genitore separato può chiedere la revoca dell’assegno di mantenimento e ottenere la restituzione delle somme versate a partire dalla data della domanda di revoca.

Trib. Roma, sez. I civile, sent., 20 agosto 2025, n. 11885

Nel caso in esame, durante un procedimento di divorzio, il padre chiedeva la cessazione dellobbligo di mantenimento nei confronti del figlio maggiorenne, ormai economicamente indipendente, e la restituzione degli importi già corrisposti a tale titolo allex moglie. 
Il Tribunale ha confermato che il padre non è più tenuto al mantenimento dal momento in cui il figlio diventa economicamente autonomo, e ha precisato che la revoca dellassegno decorre dalla prima mensilità successiva al deposito dellistanza di revoca.

Richiamando la giurisprudenza della Cassazione, il Tribunale ha ricordato che, in materia di revisione dellassegno di mantenimento, «il diritto di un coniuge a percepirlo e il corrispondente obbligo dellaltro a versarlo, nella misura e nei modi già stabiliti con la sentenza di separazione o dalle condizioni omologate con decreto, conservano la loro efficacia sino a quando non intervenga la modifica di tali provvedimenti, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui, di fatto, sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dellassegno, sicché, in mancanza di specifiche disposizioni (...), la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza anticipata al momento dellaccadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione».

Per quanto riguarda la restituzione delle somme, il Tribunale ha fatto riferimento alla sentenza n. 32914/2022 delle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui la richiesta di rimborso delle somme non dovute, conseguente a modifiche delle condizioni economiche durante il procedimento, è ammissibile se strettamente connessa agli accadimenti verificatisi nel corso del giudizio. 
In questo caso, la domanda di restituzione è stata ritenuta legittima, trattandosi di una conseguenza diretta della revoca dellassegno a seguito dellautosufficienza sopravvenuta del figlio.

Di conseguenza, il Tribunale ha condannato la moglie a restituire allex marito le somme percepite a titolo di mantenimento del figlio a partire dalla data della domanda di revoca.

Ruba uno zaino lasciato incustodito su una panchina: esclusa l’aggravante del furto di cosa esposta alla pubblica fede

Per i Giudici, non si può considerare “esposta per necessità o consuetudine alla pubblica fede” una cosa lasciata incustodita su una panchina in luogo pubblico senza alcuna cautela.

Cass. pen., sez. VI, ud. 11 settembre 2025 (dep. 9 ottobre 2025), n. 33503

Il caso in esame origina dal ricorso presentato dall'imputato a cui veniva contestato di aver presentato una denuncia falsa per il furto del proprio zaino, che in realtà era stato lasciato nell'auto di una donna durante un tentativo di furto da lui stesso commesso.

Nello specifico, il ricorrente lamenta la mancanza della condizione di procedibilità per il reato di furto oggetto della falsa denuncia, in quanto non era stata presentata querela, come richiesto per i furti semplici.
La Corte d'Appello, pur richiamando l'orientamento per il quale il reato oggetto della simulazione sia un reato procedibile d'ufficio o se procedibile a querela che questa sia stata sporta, ha comunque ritenuto applicabile l'aggravante del furto di cosa esposta alla pubblica fede.

Al contrario, il ricorrente sostiene che tale circostanza non poteva essere ravvisata in base alla descrizione del fatto di reato contenuto nella denuncia che faceva riferimento al furto di uno zaino lasciato incustodito sopra una panchina.

Secondo i Giudici, la valutazione della Corte d'Appello sulla sussistenza dell'aggravante del furto di cosa esposta alla pubblica fede è errata, in quanto non si può considerare “esposta per necessità o consuetudine alla pubblica fede” una cosa lasciata incustodita su una panchina in luogo pubblico senza alcuna cautela.

L'aggravante in esame, infatti, riguarda le cose esposte "per necessità e consuetudine" alla pubblica fede e tali devono intendersi soltanto quelle lasciate dal possessore, in modo permanente o per un certo tempo, senza diretta e continua custodia, per "necessità" o per "consuetudine" e che, per tale ragione, si trovino più esposte al rischio di essere più facilmente sottratte.

Pertanto, i comportamenti superficiali ed incauti di chi lascia incustodita la cosa in suo possesso per distrazione o leggerezza in luogo aperto al pubblico, pur potendolo agevolmente evitare e al di fuori di un contesto sociale di generale affidamento, non consente di ritenere configurabile detta aggravante, che punisce più gravemente solo i casi in cui l'assenza di custodia del bene sia imposta da situazioni di necessità o da consuetudini sociali, di cui possa trarre profitto l'autore del furto.

Alla luce di tali considerazioni, nel caso in esame non può ravvisarsi alcuna consuetudine o necessità nel lasciare incustoditi i propri effetti personali sopra una panchina in luogo aperto al pubblico, senza adottare alcuna cautela per scongiurare il rischio di furti, trattandosi di un comportamento imprudente e non giustificato da necessità o consuetudine.
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Ruba uno zaino lasciato incustodito su una panchina: esclusa l’aggravante del furto di cosa esposta alla pubblica fede

Per i Giudici, non si può considerare “esposta per necessità o consuetudine alla pubblica fede” una cosa lasciata incustodita su una panchina in luogo pubblico senza alcuna cautela.

Cass. pen., sez. VI, ud. 11 settembre 2025 (dep. 9 ottobre 2025), n. 33503

Il caso in esame origina dal ricorso presentato dallimputato a cui veniva contestato di aver presentato una denuncia falsa per il furto del proprio zaino, che in realtà era stato lasciato nellauto di una donna durante un tentativo di furto da lui stesso commesso.

Nello specifico, il ricorrente lamenta la mancanza della condizione di procedibilità per il reato di furto oggetto della falsa denuncia, in quanto non era stata presentata querela, come richiesto per i furti semplici. 
La Corte dAppello, pur richiamando lorientamento per il quale il reato oggetto della simulazione sia un reato procedibile dufficio o se procedibile a querela che questa sia stata sporta, ha comunque ritenuto applicabile laggravante del furto di cosa esposta alla pubblica fede.

Al contrario, il ricorrente sostiene che tale circostanza non poteva essere ravvisata in base alla descrizione del fatto di reato contenuto nella denuncia che faceva riferimento al furto di uno zaino lasciato incustodito sopra una panchina.

 Secondo i Giudici, la valutazione della Corte dAppello sulla sussistenza dellaggravante del furto di cosa esposta alla pubblica fede è errata, in quanto non si può considerare “esposta per necessità o consuetudine alla pubblica fede” una cosa lasciata incustodita su una panchina in luogo pubblico senza alcuna cautela.

Laggravante in esame, infatti, riguarda le cose esposte per necessità e consuetudine alla pubblica fede e tali devono intendersi soltanto quelle lasciate dal possessore, in modo permanente o per un certo tempo, senza diretta e continua custodia, per necessità o per consuetudine e che, per tale ragione, si trovino più esposte al rischio di essere più facilmente sottratte.

Pertanto, i comportamenti superficiali ed incauti di chi lascia incustodita la cosa in suo possesso per distrazione o leggerezza in luogo aperto al pubblico, pur potendolo agevolmente evitare e al di fuori di un contesto sociale di generale affidamento, non consente di ritenere configurabile detta aggravante, che punisce più gravemente solo i casi in cui lassenza di custodia del bene sia imposta da situazioni di necessità o da consuetudini sociali, di cui possa trarre profitto lautore del furto.

Alla luce di tali considerazioni, nel caso in esame non può ravvisarsi alcuna consuetudine o necessità nel lasciare incustoditi i propri effetti personali sopra una panchina in luogo aperto al pubblico, senza adottare alcuna cautela per scongiurare il rischio di furti, trattandosi di un comportamento imprudente e non giustificato da necessità o consuetudine.

Il possesso di monete numismatiche è valido solo con regolare fattura

Le monete che rivestono sia interesse culturale sia un significativo valore numismatico devono essere confiscate e restituite allo Stato, tramite il Ministero dei Beni culturali, se il privato non è in grado di dimostrare di averle ottenute da rivenditori autorizzati.

Cass. pen., sez. III, ud. 11 settembre 2025 (dep. 29 settembre 2025), n. 32166

Nel caso concreto, a seguito della confisca di alcune monete da parte delle autorità, il privato coinvolto ha sostenuto che i beni numismatici in possesso di privati possono essere considerati beni culturali solo se sono stati formalmente dichiarati tali dall'Amministrazione o se sono riconosciuti come rari o di particolare pregio.

Tuttavia, nel caso specifico, non era stata emessa alcuna dichiarazione di interesse culturale, e neppure la relazione del consulente tecnico aveva attestato la rarità o il pregio dei reperti; era stato invece richiamato l'articolo 91 d.lgs. n. 42/2004, che attribuisce allo Stato i beni di interesse culturale ritrovati nel sottosuolo o nei fondali, senza però fornire elementi circa la provenienza archeologica delle monete.

La difesa ha inoltre sostenuto che il privato può rivendicare la proprietà di beni archeologici, che di norma si presumono appartenere allo Stato, se dimostra che:

§ gli sono stati assegnati come premio per il ritrovamento;
§ sono stati ceduti dallo Stato;
§ sono stati acquisiti prima dell'entrata in vigore della legge n. 364/1909, con l'eccezione dei collezionisti, per i quali non si applica la presunzione di proprietà statale.

Nel caso in questione, il ricorrente, collezionista numismatico, aveva presentato fatture di acquisto per le monete in suo possesso, ritenendo così di aver dimostrato la legittima acquisizione dei beni tramite canali regolari: pertanto, il giudice avrebbe dovuto restituirgli tutte le monete confiscate.

La Cassazione ha ribadito che il Codice dei beni culturali (codice Urbani) riconosce la possibilità per i privati di detenere beni di interesse culturale, comprese le collezioni numismatiche, a condizione che il Ministero non ne abbia dichiarato l'eccezionale interesse culturale. In tali casi, il possesso è considerato lecito se le monete sono state acquistate da rivenditori autorizzati o altri collezionisti, salvo la prova che gli oggetti provengano da scavi anteriori alla legge n. 364/1909 o da attività illecite.

Nel caso esaminato, tuttavia, il giudice ha rilevato che le monete di provenienza italiana, per le quali era stata richiesta la restituzione, erano prive di documentazione che ne attestasse l'acquisto tramite canali commerciali regolari, come previsto dalla normativa vigente (ovvero tramite commercianti muniti di appositi registri).

Per questo motivo, la confisca disposta è stata ritenuta pienamente legittima.
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Il possesso di monete numismatiche è valido solo con regolare fattura

Le monete che rivestono sia interesse culturale sia un significativo valore numismatico devono essere confiscate e restituite allo Stato, tramite il Ministero dei Beni culturali, se il privato non è in grado di dimostrare di averle ottenute da rivenditori autorizzati.

Cass. pen., sez. III, ud. 11 settembre 2025 (dep. 29 settembre 2025), n. 32166

Nel caso concreto, a seguito della confisca di alcune monete da parte delle autorità, il privato coinvolto ha sostenuto che i beni numismatici in possesso di privati possono essere considerati beni culturali solo se sono stati formalmente dichiarati tali dallAmministrazione o se sono riconosciuti come rari o di particolare pregio.

Tuttavia, nel caso specifico, non era stata emessa alcuna dichiarazione di interesse culturale, e neppure la relazione del consulente tecnico aveva attestato la rarità o il pregio dei reperti; era stato invece richiamato larticolo 91 d.lgs. n. 42/2004, che attribuisce allo Stato i beni di interesse culturale ritrovati nel sottosuolo o nei fondali, senza però fornire elementi circa la provenienza archeologica delle monete.

La difesa ha inoltre sostenuto che il privato può rivendicare la proprietà di beni archeologici, che di norma si presumono appartenere allo Stato, se dimostra che:

§ gli sono stati assegnati come premio per il ritrovamento;
§ sono stati ceduti dallo Stato;
§ sono stati acquisiti prima dellentrata in vigore della legge n. 364/1909, con leccezione dei collezionisti, per i quali non si applica la presunzione di proprietà statale.
 
Nel caso in questione, il ricorrente, collezionista numismatico, aveva presentato fatture di acquisto per le monete in suo possesso, ritenendo così di aver dimostrato la legittima acquisizione dei beni tramite canali regolari: pertanto, il giudice avrebbe dovuto restituirgli tutte le monete confiscate.

La Cassazione ha ribadito che il Codice dei beni culturali (codice Urbani) riconosce la possibilità per i privati di detenere beni di interesse culturale, comprese le collezioni numismatiche, a condizione che il Ministero non ne abbia dichiarato leccezionale interesse culturale. In tali casi, il possesso è considerato lecito se le monete sono state acquistate da rivenditori autorizzati o altri collezionisti, salvo la prova che gli oggetti provengano da scavi anteriori alla legge n. 364/1909 o da attività illecite.

Nel caso esaminato, tuttavia, il giudice ha rilevato che le monete di provenienza italiana, per le quali era stata richiesta la restituzione, erano prive di documentazione che ne attestasse lacquisto tramite canali commerciali regolari, come previsto dalla normativa vigente (ovvero tramite commercianti muniti di appositi registri).

Per questo motivo, la confisca disposta è stata ritenuta pienamente legittima.

Sinistro stradale, il terzo trasportato può testimoniare anche se è parente del conducente?

L’incapacità a testimoniare deve essere eccepita tempestivamente dalla parte e non è rilevabile d’ufficio. L’incapacità resta inoltre distinta dalla valutazione dell’attendibilità del teste, attenendo esse a profili del tutto diversi.

Cass. civ., sez. III, ord. 9 settembre 2025, n. 24867

Il conducente di un'auto citava in giudizio la donna alla guida dell'altra vettura coinvolta nel sinistro e la compagnia assicuratrice, chiedendo il risarcimento dei danni subiti.
Il giudice di pace ha respinto la domanda, attribuendo all'attore la responsabilità per non aver dato precedenza.
Anche il Tribunale di secondo grado ha confermato il rigetto della domanda, ritenendo i testimoni trasportati (uno dei quali parente del danneggiato) incapaci a testimoniare e preferendo la versione dei fatti offerta da un testimone ritenuto “imparziale”.

Il giudice di pace ha respinto la domanda, attribuendo all'attore la responsabilità per non aver dato precedenza. Anche il Tribunale di secondo grado ha confermato il rigetto della domanda, ritenendo i testimoni trasportati (uno dei quali parente del danneggiato) incapaci a testimoniare e preferendo la versione dei fatti offerta da un testimone ritenuto “imparziale”.

Veniva quindi proposto ricorso per Cassazione dal soccombente che lamenta, tra l'altro, la dichiarazione di incapacità a testimoniare dei suoi testimoni (che nessuna delle controparti aveva eccepito) e la conseguente inattendibilità che il giudice aveva loro attribuito.

La Cassazione ha accolto il ricorso.
Infatti, la capacità a testimoniare, ai sensi dell'art. 246 c.p.c., riguarda l'esistenza di un interesse giuridicamente qualificato alla partecipazione al giudizio, diverso dal mero interesse di fatto al suo esito.
Tale incapacità a testimoniare non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, ma deve essere tempestivamente eccepita dalla parte interessata. In mancanza di tempestiva eccezione, la questione si considera definitivamente preclusa e la prova assunta non può essere dichiarata nulla successivamente.
Sussiste dunque una netta distinzione tra il profilo oggettivo della capacità a testimoniare (che dipende dall'interesse giuridico) e quello soggettivo dell'attendibilità della deposizione, che invece attiene al contenuto della testimonianza e alla valutazione discrezionale del giudice.
In altre parole, il fatto che un testimone sia parente, amico o abbia un interesse di fatto non comporta, di per sé, incapacità a testimoniare, ma potrà al più influire sull'attendibilità della sua deposizione, che sarà oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice di merito.

Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto erronea la decisione del giudice di secondo grado, che aveva escluso le testimonianze dei terzi trasportati per incapacità a testimoniare, senza che fosse intervenuta una specifica eccezione di parte e senza distinguere correttamente tra incapacità e attendibilità.
La Corte rileva che la condizione di “terzo trasportato” o di “parente” non comporta automaticamente incapacità a testimoniare, salvo la prova di un interesse giuridico qualificato e sempre che l'eccezione sia tempestivamente sollevata dalla parte interessata.
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Sinistro stradale, il terzo trasportato può testimoniare anche se è parente del conducente?

L’incapacità a testimoniare deve essere eccepita tempestivamente dalla parte e non è rilevabile d’ufficio. L’incapacità resta inoltre distinta dalla valutazione dell’attendibilità del teste, attenendo esse a profili del tutto diversi.

Cass. civ., sez. III, ord. 9 settembre 2025, n. 24867

Il conducente di unauto citava in giudizio la donna alla guida dellaltra vettura coinvolta nel sinistro e la compagnia assicuratrice, chiedendo il risarcimento dei danni subiti.
Il giudice di pace ha respinto la domanda, attribuendo allattore la responsabilità per non aver dato precedenza. 
Anche il Tribunale di secondo grado ha confermato il rigetto della domanda, ritenendo i testimoni trasportati (uno dei quali parente del danneggiato) incapaci a testimoniare e preferendo la versione dei fatti offerta da un testimone ritenuto “imparziale”.

Il giudice di pace ha respinto la domanda, attribuendo allattore la responsabilità per non aver dato precedenza. Anche il Tribunale di secondo grado ha confermato il rigetto della domanda, ritenendo i testimoni trasportati (uno dei quali parente del danneggiato) incapaci a testimoniare e preferendo la versione dei fatti offerta da un testimone ritenuto “imparziale”.

Veniva quindi proposto ricorso per Cassazione dal soccombente che lamenta, tra laltro, la dichiarazione di incapacità a testimoniare dei suoi testimoni (che nessuna delle controparti aveva eccepito) e la conseguente inattendibilità che il giudice aveva loro attribuito.

La Cassazione ha accolto il ricorso.
Infatti, la capacità a testimoniare, ai sensi dellart. 246 c.p.c., riguarda lesistenza di un interesse giuridicamente qualificato alla partecipazione al giudizio, diverso dal mero interesse di fatto al suo esito. 
Tale incapacità a testimoniare non può essere rilevata dufficio dal giudice, ma deve essere tempestivamente eccepita dalla parte interessata. In mancanza di tempestiva eccezione, la questione si considera definitivamente preclusa e la prova assunta non può essere dichiarata nulla successivamente. 
Sussiste dunque una netta distinzione tra il profilo oggettivo della capacità a testimoniare (che dipende dallinteresse giuridico) e quello soggettivo dellattendibilità della deposizione, che invece attiene al contenuto della testimonianza e alla valutazione discrezionale del giudice. 
In altre parole, il fatto che un testimone sia parente, amico o abbia un interesse di fatto non comporta, di per sé, incapacità a testimoniare, ma potrà al più influire sullattendibilità della sua deposizione, che sarà oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice di merito.

Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto erronea la decisione del giudice di secondo grado, che aveva escluso le testimonianze dei terzi trasportati per incapacità a testimoniare, senza che fosse intervenuta una specifica eccezione di parte e senza distinguere correttamente tra incapacità e attendibilità. 
La Corte rileva che la condizione di “terzo trasportato” o di “parente” non comporta automaticamente incapacità a testimoniare, salvo la prova di un interesse giuridico qualificato e sempre che leccezione sia tempestivamente sollevata dalla parte interessata.

Permessi studio nelle università telematiche: quando spettano ai dipendenti pubblici?

Il permesso studio retribuito per i dipendenti pubblici è riconosciuto solo se la frequenza delle lezioni coincide con l'orario di lavoro e ciò risulta da idonea documentazione; per le università telematiche, la natura asincrona delle lezioni esclude il diritto al beneficio, salvo specifica prova dell'impossibilità di seguire le attività in orari diversi.

Cass. civ., sez. lav., ord., 11 settembre 2025, n. 25038

La vicenda trae origine dalla richiesta di quattro dipendenti dell'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, volta a ottenere il riconoscimento dei permessi previsti dall'art. 48 del CCNL Comparto Agenzie Fiscali.
L'Amministrazione aveva subordinato la concessione del beneficio alla produzione, da parte dei lavoratori, di una certificazione dell'ateneo telematico che attestasse l'impossibilità di seguire le lezioni in orari diversi da quelli di servizio.
Tale richiesta era stata ritenuta illegittima dal Tribunale di Milano e, in sede di gravame, dalla Corte d'Appello.

La Cassazione, ribaltando le conclusioni dei giudici di merito, ha invece accolto il ricorso dell'Agenzia.

Il Collegio ha ribadito un principio già affermato in precedenza (v. Cass. n. 10344/2008 e Cass. n. 17128/2013): il diritto ai permessi studio presuppone la coincidenza tra l'orario di lavoro e quello delle lezioni.
Ne deriva che il beneficio non può essere riconosciuto per la generica esigenza di studiare o per attività complementari, ma solo ove vi sia prova che la frequenza delle lezioni avvenga in orari coincidenti con il servizio.

Con specifico riguardo alle università telematiche, i Giudici hanno, poi, evidenziato che la modalità asincrona di erogazione delle lezioni consente agli studenti di collegarsi liberamente, senza vincoli temporali.
In tali casi, viene meno il presupposto oggettivo che giustifica l'assenza retribuita, potendo il lavoratore seguire i corsi anche al di fuori dell'orario di lavoro.
Solo qualora l'ateneo certifichi che la partecipazione a determinate attività didattiche avviene necessariamente in orari predeterminati e coincidenti con il servizio, potrà, dunque, riconoscersi il diritto ai permessi.
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Permessi studio nelle università telematiche: quando spettano ai dipendenti pubblici?

Il permesso studio retribuito per i dipendenti pubblici è riconosciuto solo se la frequenza delle lezioni coincide con lorario di lavoro e ciò risulta da idonea documentazione; per le università telematiche, la natura asincrona delle lezioni esclude il diritto al beneficio, salvo specifica prova dellimpossibilità di seguire le attività in orari diversi.

Cass. civ., sez. lav., ord., 11 settembre 2025, n. 25038

La vicenda trae origine dalla richiesta di quattro dipendenti dellAgenzia delle Dogane e dei Monopoli, volta a ottenere il riconoscimento dei permessi previsti dallart. 48 del CCNL Comparto Agenzie Fiscali. 
LAmministrazione aveva subordinato la concessione del beneficio alla produzione, da parte dei lavoratori, di una certificazione dellateneo telematico che attestasse limpossibilità di seguire le lezioni in orari diversi da quelli di servizio. 
Tale richiesta era stata ritenuta illegittima dal Tribunale di Milano e, in sede di gravame, dalla Corte dAppello.

La Cassazione, ribaltando le conclusioni dei giudici di merito, ha invece accolto il ricorso dellAgenzia. 

Il Collegio ha ribadito un principio già affermato in precedenza (v. Cass. n. 10344/2008 e Cass. n. 17128/2013): il diritto ai permessi studio presuppone la coincidenza tra lorario di lavoro e quello delle lezioni. 
Ne deriva che il beneficio non può essere riconosciuto per la generica esigenza di studiare o per attività complementari, ma solo ove vi sia prova che la frequenza delle lezioni avvenga in orari coincidenti con il servizio.

Con specifico riguardo alle università telematiche, i Giudici hanno, poi, evidenziato che la modalità asincrona di erogazione delle lezioni consente agli studenti di collegarsi liberamente, senza vincoli temporali. 
In tali casi, viene meno il presupposto oggettivo che giustifica lassenza retribuita, potendo il lavoratore seguire i corsi anche al di fuori dellorario di lavoro. 
Solo qualora lateneo certifichi che la partecipazione a determinate attività didattiche avviene necessariamente in orari predeterminati e coincidenti con il servizio, potrà, dunque, riconoscersi il diritto ai permessi.

Il terzo trasportato può agire direttamente contro l’assicurazione del vettore indipendentemente dall’accertamento delle responsabilità

Il terzo trasportato, considerato parte debole in caso di incidente stradale, ha diritto a chiedere direttamente il risarcimento dei danni subiti alla compagnia assicurativa del veicolo su cui viaggiava ai sensi dell’art. 141 cod. ass., senza dover attendere l’individuazione del responsabile, salvo il caso fortuito.

Cass. civ., sez. III, ord., 11 settembre 2025, n. 25033

In primo grado, il Tribunale aveva respinto la domanda delle terza trasportata, sostenendo che l'azione avrebbe dovuto essere promossa contro l'Ufficio Centrale Italiano (UCI) e il proprietario dell'auto con targa straniera, in quanto la responsabilità era stata attribuita esclusivamente al conducente di quest'ultima.

La Cassazione ha invece chiarito che l'azione diretta prevista dall'art. 141 cod. ass. può essere esercitata, tranne nel caso fortuito, senza che sia necessario stabilire chi sia il responsabile dell'incidente: la norma, infatti, mira a evitare che il risarcimento al passeggero venga ritardato «dalla necessità di compiere accertamenti sulla responsabilità del sinistro».
Le Sezioni Unite (n. 35318/2022) hanno risolto ogni dubbio interpretativo sulla nozione di "caso fortuito", precisando che riguarda solo fattori naturali o umani estranei alla circolazione, mentre la condotta colposa dell'altro conducente non limita la possibilità di agire direttamente.

Inoltre, la possibilità di agire ex art. 141 non è ostacolata dal coinvolgimento di un veicolo immatricolato all'estero: infatti, la normativa, di derivazione comunitaria, «assegna una garanzia diretta alle vittime dei sinistri stradali in un'ottica di tutela sociale che fa traslare il “rischio di causa” dal terzo trasportato, vittima del sinistro, sulla compagnia assicuratrice del trasportante».
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Il terzo trasportato può agire direttamente contro l’assicurazione del vettore indipendentemente dall’accertamento delle responsabilità

Il terzo trasportato, considerato parte debole in caso di incidente stradale, ha diritto a chiedere direttamente il risarcimento dei danni subiti alla compagnia assicurativa del veicolo su cui viaggiava ai sensi dell’art. 141 cod. ass., senza dover attendere l’individuazione del responsabile, salvo il caso fortuito.

Cass. civ., sez. III, ord., 11 settembre 2025, n. 25033

In primo grado, il Tribunale aveva respinto la domanda delle terza trasportata, sostenendo che lazione avrebbe dovuto essere promossa contro lUfficio Centrale Italiano (UCI) e il proprietario dellauto con targa straniera, in quanto la responsabilità era stata attribuita esclusivamente al conducente di questultima.

La Cassazione ha invece chiarito che lazione diretta prevista dallart. 141 cod. ass. può essere esercitata, tranne nel caso fortuito, senza che sia necessario stabilire chi sia il responsabile dellincidente: la norma, infatti, mira a evitare che il risarcimento al passeggero venga ritardato «dalla necessità di compiere accertamenti sulla responsabilità del sinistro». 
Le Sezioni Unite (n. 35318/2022) hanno risolto ogni dubbio interpretativo sulla nozione di caso fortuito, precisando che riguarda solo fattori naturali o umani estranei alla circolazione, mentre la condotta colposa dellaltro conducente non limita la possibilità di agire direttamente.

Inoltre, la possibilità di agire ex art. 141 non è ostacolata dal coinvolgimento di un veicolo immatricolato allestero: infatti, la normativa, di derivazione comunitaria, «assegna una garanzia diretta alle vittime dei sinistri stradali in unottica di tutela sociale che fa traslare il “rischio di causa” dal terzo trasportato, vittima del sinistro, sulla compagnia assicuratrice del trasportante».

Il coniuge non ha diritto all’assegno di divorzio se rifiuta un lavoro proposto dall'altro

L'assegno di divorzio non costituisce una rendita a tempo indeterminato indifferente al sopravvenire di nuove circostanze, né autorizza l’avente diritto a tenere un atteggiamento passivo confidando sulla possibilità di gravare, vita natural durante, sul soggetto obbligato.
Il beneficiario dell’assegno divorzile deve attivarsi per rendersi economicamente indipendente.

Cass. civ., sez. I, ord., 17 settembre 2025, n. 25523

La ricorrente ritiene che non siano state debitamente considerate le proprie argomentazioni in merito alla congruità e adeguatezza dell'offerta di lavoro avanzata nel corso del giudizio di primo grado. La suddetta offerta, per la stessa, non è mai stata seria, né stabile, né confacente rispetto alla sua formazione professionale (inesistente) e non le avrebbe mai consentito una stabile autosufficienza economica rispetto all'originario ammontare dell'assegno.

La Suprema Corte ribadisce l'assunto che l'assegno divorzile non costituisce una rendita a tempo indeterminato, indifferente al sopravvenire di nuove circostanze, né autorizza l'avente diritto ad assumere un atteggiamento passivo confidando sulla possibilità di gravare, vita natural durante, sul soggetto obbligato.
Il beneficiario di un assegno di divorzio deve attivarsi per rendersi economicamente indipendente.

I Supremi giudici ritengono, dunque, che la ricorrente avrebbe dovuto accettare una proposta di lavoro seria, con uno stipendio adeguato, anche se inferiore all'assegno divorzile o al contributo che le attuali condizioni dell'ex coniuge avrebbero potuto garantirle, tenuto conto del fatto che non vi è un diritto al mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

In definitiva, per i giudici della legittimità, la Corte d'Appello ha ritenuto l'offerta di lavoro fatta alla ricorrente stabile, vantaggiosa e sufficiente a far venire meno in radice la debenza dell'assegno. In altre parole, ha valutato la serietà e la congruità dell'offerta di lavoro, esponendo adeguatamente le ragioni della decisione, in relazione agli aspetti fondamentali del rapporto che è stato prospettato.
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Il coniuge non ha diritto all’assegno di divorzio se rifiuta un lavoro proposto dallaltro

Lassegno di divorzio non costituisce una rendita a tempo indeterminato indifferente al sopravvenire di nuove circostanze, né autorizza l’avente diritto a tenere un atteggiamento passivo confidando sulla possibilità di gravare, vita natural durante, sul soggetto obbligato. 
Il beneficiario dell’assegno divorzile deve attivarsi per rendersi economicamente indipendente.

Cass. civ., sez. I, ord., 17 settembre 2025, n. 25523

La ricorrente ritiene che non siano state debitamente considerate le proprie argomentazioni in merito alla congruità e adeguatezza dellofferta di lavoro avanzata nel corso del giudizio di primo grado. La suddetta offerta, per la stessa, non è mai stata seria, né stabile, né confacente rispetto alla sua formazione professionale (inesistente) e non le avrebbe mai consentito una stabile autosufficienza economica rispetto alloriginario ammontare dellassegno.

La Suprema Corte ribadisce lassunto che lassegno divorzile non costituisce una rendita a tempo indeterminato, indifferente al sopravvenire di nuove circostanze, né autorizza lavente diritto ad assumere un atteggiamento passivo confidando sulla possibilità di gravare, vita natural durante, sul soggetto obbligato. 
Il beneficiario di un assegno di divorzio deve attivarsi per rendersi economicamente indipendente.

I Supremi giudici ritengono, dunque, che la ricorrente avrebbe dovuto accettare una proposta di lavoro seria, con uno stipendio adeguato, anche se inferiore allassegno divorzile o al contributo che le attuali condizioni dellex coniuge avrebbero potuto garantirle, tenuto conto del fatto che non vi è un diritto al mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

In definitiva, per i giudici della legittimità, la Corte dAppello ha ritenuto lofferta di lavoro fatta alla ricorrente stabile, vantaggiosa e sufficiente a far venire meno in radice la debenza dellassegno. In altre parole, ha valutato la serietà e la congruità dellofferta di lavoro, esponendo adeguatamente le ragioni della decisione, in relazione agli aspetti fondamentali del rapporto che è stato prospettato.

Tentata strage in condominio: confermata la condanna per la deflagrazione mancata.

Chi satura di gas il proprio appartamento e minaccia di farlo esplodere, mettendo così a rischio la vita degli altri condomini, risponde di strage, perché la coscienza del pericolo creato per la collettività non viene meno nemmeno in presenza di vizio parziale di mente o di uso di psicofarmaci.

Cass. pen., sez. V, ud. 2 luglio 2025 (dep. 20 agosto 20205), n. 29601

La Corte di Cassazione ha confermato le decisioni della Corte d’Assise d’Appello di Napoli riguardo ai reati di strage e resistenza a pubblico ufficiale, relativi ad una vicenda in cui l’imputato aveva aperto le manopole del gas nel proprio appartamento, minacciando di provocare un’esplosione e di uccidere tutti i condomini mediante l’uso di un accendino, opponendosi poi all’intervento delle Forze dell’ordine.

La questione centrale ha riguardato la qualificazione giuridica della condotta e la ricorrenza del dolo specifico necessario per il delitto di strage: i giudici di merito hanno ritenuto che la diretta percezione dell’accaduto, la volontà di utilizzare l’accendino in un ambiente saturo di gas e le esplicite minacce fossero elementi idonei a integrare il reato, valorizzando la straordinaria potenzialità offensiva del mezzo usato e la consapevolezza di porre in pericolo la vita di un numero indeterminato di persone, senza che il vizio parziale di mente o l’uso di psicofarmaci potessero escludere tale consapevolezza.
È stata esclusa la possibilità di riqualificare il fatto come semplice crollo di costruzioni, poiché la finalità perseguita non era la mera distruzione materiale dell’edificio, ma l’attentato all’incolumità degli abitanti.
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Tentata strage in condominio: confermata la condanna per la deflagrazione mancata.

Chi satura di gas il proprio appartamento e minaccia di farlo esplodere, mettendo così a rischio la vita degli altri condomini, risponde di strage, perché la coscienza del pericolo creato per la collettività non viene meno nemmeno in presenza di vizio parziale di mente o di uso di psicofarmaci.

Cass. pen., sez. V, ud. 2 luglio 2025 (dep. 20 agosto 20205), n. 29601

La Corte di Cassazione ha confermato le decisioni della Corte d’Assise d’Appello di Napoli riguardo ai reati di strage e resistenza a pubblico ufficiale, relativi ad una vicenda in cui l’imputato aveva aperto le manopole del gas nel proprio appartamento, minacciando di provocare un’esplosione e di uccidere tutti i condomini mediante l’uso di un accendino, opponendosi poi all’intervento delle Forze dell’ordine.

La questione centrale ha riguardato la qualificazione giuridica della condotta e la ricorrenza del dolo specifico necessario per il delitto di strage: i giudici di merito hanno ritenuto che la diretta percezione dell’accaduto, la volontà di utilizzare l’accendino in un ambiente saturo di gas e le esplicite minacce fossero elementi idonei a integrare il reato, valorizzando la straordinaria potenzialità offensiva del mezzo usato e la consapevolezza di porre in pericolo la vita di un numero indeterminato di persone, senza che il vizio parziale di mente o l’uso di psicofarmaci potessero escludere tale consapevolezza. 
È stata esclusa la possibilità di riqualificare il fatto come semplice crollo di costruzioni, poiché la finalità perseguita non era la mera distruzione materiale dell’edificio, ma l’attentato all’incolumità degli abitanti.

Patti pre-matrimoniali

La Corte di Cassazione torna sul binomio autonomia contrattuale-famiglia, riconoscendo piena validità agli accordi economico-patrimoniali stipulati in bonis tra i coniugi, aventi ad oggetto reciproche concessioni di dare-avere, condizionati ad una futura ed eventuale crisi familiare.

Cass. civ., sez. I, ord., 21 luglio 2025, n. 20415

Sono validi ed efficaci gli accordi stipulati tra i nubendi, o tra i coniugi, volti a regolamentare i rapporti patrimoniali interni, in caso di futura ed incerta crisi coniugale, per mezzo di reciproche ed eque concessioni, in quanto qualificabili come contratti atipici sottoposti a condizione sospensiva lecita.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha riconosciuto la piena validità di una scrittura privata sottoscritta tra i coniugi, per mezzo della quale si prevedeva che, in caso di separazione, l'uno si obbligava al pagamento di una somma di denaro a beneficio dell'altro che, a sua volta, rinunciava, in suo favore, ad alcuni beni mobili.

Parte attrice intestava il Tribunale di Mantova domandando l'accertamento della nullità, per contrarietà all'ordine pubblico e a norme imperative quali gli artt. 143,160 c.c., della scrittura privata stipulata, in costanza di matrimonio, con l'allora coniuge.

Il citato accordo regolava aspetti patrimoniali interni, nell'ipotesi di un'incerta e futura crisi coniugale e, in particolare, riconosceva il ruolo attivo della consorte nella formazione, e nel mantenimento, del benessere economico familiare e nel pagamento del mutuo per la ristrutturazione dell'immobile a lui intestato.
I mutuali interessi delle parti, come sigillati nella scrittura privata contestata, si concretizzavano nella dichiarata previsione dell'insorgere automatico di un debito a carico del marito, nell'ipotesi di separazione personale, e di un'espressa rinuncia a determinati beni mobili da parte della moglie.

Il Giudice del primo grado respingeva la menzionata domanda ed accoglieva quanto richiesto dalla costituita coniuge in via riconvenzionale, condannando, contestualmente, il marito al pagamento della somma, a titolo di obbligazione restitutoria, indicata all'interno della stipulata scrittura privata.

L'adita Corte d'appello confermava la decisione del Tribunale, accertando la piena validità della scrittura privata e, quindi, degli accordi patrimoniali ivi contenuti.

La Cassazione respingeva il ricorso, confermando la pronuncia della Corte territoriale che aveva riconosciuto la validità della contestata scrittura privata, in quanto contratto atipico con condizione sospensiva lecita.

In sede di legittimità, l'accordo è stato riconfermato come valido, in quanto lecito ed equo e, nondimeno, rispettoso dei necessari limiti da mantenere nei confronti dei diritti indisponibili; l'importo previsto a titolo di obbligazione restitutoria, non poteva configurarsi come una somma “una tantum”, che avrebbe, di talché, interferito con la disciplina dell'assegno divorzile (indisponibile), sulla considerazione che non vi era alcuna espressa dicitura, né rinuncia esplicita all'assegno.
Parimenti, non risultava integrare adempimento di un'obbligazione naturale, stante l'inesistenza di divieti che inibiscano i coniugi nella riconoscenza di insorti rapporti di dare-avere.
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Patti pre-matrimoniali

La Corte di Cassazione torna sul binomio autonomia contrattuale-famiglia, riconoscendo piena validità agli accordi economico-patrimoniali stipulati in bonis tra i coniugi, aventi ad oggetto reciproche concessioni di dare-avere, condizionati ad una futura ed eventuale crisi familiare.

Cass. civ., sez. I, ord., 21 luglio 2025, n. 20415

Sono validi ed efficaci gli accordi stipulati tra i nubendi, o tra i coniugi, volti a regolamentare i rapporti patrimoniali interni, in caso di futura ed incerta crisi coniugale, per mezzo di reciproche ed eque concessioni, in quanto qualificabili come contratti atipici sottoposti a condizione sospensiva lecita. 
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha riconosciuto la piena validità di una scrittura privata sottoscritta tra i coniugi, per mezzo della quale si prevedeva che, in caso di separazione, luno si obbligava al pagamento di una somma di denaro a beneficio dellaltro che, a sua volta, rinunciava, in suo favore, ad alcuni beni mobili.

Parte attrice intestava il Tribunale di Mantova domandando laccertamento della nullità, per contrarietà allordine pubblico e a norme imperative quali gli artt. 143,160 c.c., della scrittura privata stipulata, in costanza di matrimonio, con lallora coniuge.

Il citato accordo regolava aspetti patrimoniali interni, nellipotesi di unincerta e futura crisi coniugale e, in particolare, riconosceva il ruolo attivo della consorte nella formazione, e nel mantenimento, del benessere economico familiare e nel pagamento del mutuo per la ristrutturazione dellimmobile a lui intestato. 
I mutuali interessi delle parti, come sigillati nella scrittura privata contestata, si concretizzavano nella dichiarata previsione dellinsorgere automatico di un debito a carico del marito, nellipotesi di separazione personale, e di unespressa rinuncia a determinati beni mobili da parte della moglie.

Il Giudice del primo grado respingeva la menzionata domanda ed accoglieva quanto richiesto dalla costituita coniuge in via riconvenzionale, condannando, contestualmente, il marito al pagamento della somma, a titolo di obbligazione restitutoria, indicata allinterno della stipulata scrittura privata.

Ladita Corte dappello confermava la decisione del Tribunale, accertando la piena validità della scrittura privata e, quindi, degli accordi patrimoniali ivi contenuti.

La Cassazione respingeva il ricorso, confermando la pronuncia della Corte territoriale che aveva riconosciuto la validità della contestata scrittura privata, in quanto contratto atipico con condizione sospensiva lecita.

In sede di legittimità, laccordo è stato riconfermato come valido, in quanto lecito ed equo e, nondimeno, rispettoso dei necessari limiti da mantenere nei confronti dei diritti indisponibili; limporto previsto a titolo di obbligazione restitutoria, non poteva configurarsi come una somma “una tantum”, che avrebbe, di talché, interferito con la disciplina dellassegno divorzile (indisponibile), sulla considerazione che non vi era alcuna espressa dicitura, né rinuncia esplicita allassegno. 
Parimenti, non risultava integrare adempimento di unobbligazione naturale, stante linesistenza di divieti che inibiscano i coniugi nella riconoscenza di insorti rapporti di dare-avere.

Alla morte della zia, i nipoti possono essere eredi diretti?

Il decesso di una zia che non aveva nè marito, nè genitori e nè figli, dà diritto a due fratelli all’eredità della zia? E quindi a partecipare alle pratiche di successione?

Non avendo lasciato la zia testamento, si apre la sua successione legittima; l'apertura della successione comporta che i soggetti individuati dalla legge (c.d. chiamati all'eredità) possano decidere se accettare o rinunciare.

Nel caso di specie il soggetto chiamato all'eredità – non avendo la zia un marito, dei genitori e mai avuto figli – risulterebbe ai sensi dell'art. 570 c.c. il fratello che, però, le è premorto.

Ai sensi degli articoli 467,468 e 469 c.c. scatta, in questo caso, il fenomeno della rappresentazione in forza del quale quando un soggetto «non può o non vuole accettare l'eredità» (ed il fratello materialmente «non può» accettare, in quanto è morto prima della sorella), al posto del soggetto premorto subentrano i suoi discendenti (e non la moglie).

Chiamati all'eredità della zia sono, quindi, esclusivamente i due nipoti, in quanto sono subentrati nella stessa identica posizione che rispetto alla zia aveva il fratello; i nipoti potranno, quindi, decidere se accettare o rinunciare all'eredità della zia, nello stesso modo in cui avrebbe potuto deciderlo il proprio genitore ove fosse stato vivo.

Non rileva che i due nipoti abbiano rinunciato all'eredità del padre, in quanto essi sono eredi diretti della zia.
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Alla morte della zia, i nipoti possono essere eredi diretti?

Il decesso di una zia che non aveva nè marito, nè genitori e nè figli, dà diritto a due fratelli all’eredità della zia? E quindi a partecipare alle pratiche di successione?

Non avendo lasciato la zia testamento, si apre la sua successione legittima; lapertura della successione comporta che i soggetti individuati dalla legge (c.d. chiamati alleredità) possano decidere se accettare o rinunciare.

Nel caso di specie il soggetto chiamato alleredità – non avendo la zia un marito, dei genitori e mai avuto figli – risulterebbe ai sensi dellart. 570 c.c. il fratello che, però, le è premorto.

Ai sensi degli articoli 467,468 e 469 c.c. scatta, in questo caso, il fenomeno della rappresentazione in forza del quale quando un soggetto «non può o non vuole accettare leredità» (ed il fratello materialmente «non può» accettare, in quanto è morto prima della sorella), al posto del soggetto premorto subentrano i suoi discendenti (e non la moglie).

Chiamati alleredità della zia sono, quindi, esclusivamente i due nipoti, in quanto sono subentrati nella stessa identica posizione che rispetto alla zia aveva il fratello; i nipoti potranno, quindi, decidere se accettare o rinunciare alleredità della zia, nello stesso modo in cui avrebbe potuto deciderlo il proprio genitore ove fosse stato vivo.

Non rileva che i due nipoti abbiano rinunciato alleredità del padre, in quanto essi sono eredi diretti della zia.

Pensione per animali: il gestore non risponde in caso di morte imprevedibile del cane

Nel rapporto tra proprietario e gestore di una pensione per animali, qualificato come deposito atipico ex art. 1766 c.c., il depositario risponde solo se non dimostra di aver adottato la diligenza del buon padre di famiglia e che il danno non sia dovuto a causa a sé non imputabile, restando esclusa la responsabilità contrattuale quando l’evento, come la morte dell’animale per patologia improvvisa, risulti imprevedibile e inevitabile.

Cass. civ., sez. III, ord., 15 luglio 2025, n. 19497

La Corte di Cassazione, con l'ordinanza in commento, è intervenuta sulla responsabilità civile nella custodia di animali in ambito contrattuale, ribadendo che il rapporto tra proprietario e gestore di una pensione per animali si configura come contratto di deposito atipico ai sensi dell'art. 1766 c.c. e ss.

Tale ricostruzione comporta che il depositario sia tenuto a osservare la diligenza del buon padre di famiglia nell'adempimento delle obbligazioni assunte e che, in caso di danno, su di lui gravi l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cure necessarie e che l'inadempimento sia riconducibile a una causa a sé non imputabile, secondo quanto previsto dall'art. 1218 c.c.

La Suprema Corte ha valorizzato l'orientamento giurisprudenziale che considera gli animali d'affezione oggetto di specifiche obbligazioni di custodia, richiamando i principi già affermati anche per le strutture ricettive che accolgono animali.
Viene così ribadito che la responsabilità del depositario non si configura qualora risulti provato che tutte le cautele e le attenzioni richieste sono state adottate e che l'evento dannoso sia indipendente da qualsiasi omissione a lui imputabile.

Nel caso di specie, i Giudici hanno riconosciuto che il decesso del cane, affidato a una pensione, era stato causato da una torsione gastroplenica completa, evento patologico improvviso e rapido contro cui «nulla poteva evitare la convenuta», escludendo quindi ogni profilo di responsabilità contrattuale e dichiarando, di conseguenza, inammissibile il ricorso.
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Pensione per animali: il gestore non risponde in caso di morte imprevedibile del cane

Nel rapporto tra proprietario e gestore di una pensione per animali, qualificato come deposito atipico ex art. 1766 c.c., il depositario risponde solo se non dimostra di aver adottato la diligenza del buon padre di famiglia e che il danno non sia dovuto a causa a sé non imputabile, restando esclusa la responsabilità contrattuale quando l’evento, come la morte dell’animale per patologia improvvisa, risulti imprevedibile e inevitabile.

Cass. civ., sez. III, ord., 15 luglio 2025, n. 19497

La Corte di Cassazione, con lordinanza in commento, è intervenuta sulla responsabilità civile nella custodia di animali in ambito contrattuale, ribadendo che il rapporto tra proprietario e gestore di una pensione per animali si configura come contratto di deposito atipico ai sensi dellart. 1766 c.c. e ss.

Tale ricostruzione comporta che il depositario sia tenuto a osservare la diligenza del buon padre di famiglia nelladempimento delle obbligazioni assunte e che, in caso di danno, su di lui gravi lonere di dimostrare di aver adottato tutte le cure necessarie e che linadempimento sia riconducibile a una causa a sé non imputabile, secondo quanto previsto dallart. 1218 c.c.

La Suprema Corte ha valorizzato lorientamento giurisprudenziale che considera gli animali daffezione oggetto di specifiche obbligazioni di custodia, richiamando i principi già affermati anche per le strutture ricettive che accolgono animali. 
Viene così ribadito che la responsabilità del depositario non si configura qualora risulti provato che tutte le cautele e le attenzioni richieste sono state adottate e che levento dannoso sia indipendente da qualsiasi omissione a lui imputabile.

Nel caso di specie, i Giudici hanno riconosciuto che il decesso del cane, affidato a una pensione, era stato causato da una torsione gastroplenica completa, evento patologico improvviso e rapido contro cui «nulla poteva evitare la convenuta», escludendo quindi ogni profilo di responsabilità contrattuale e dichiarando, di conseguenza, inammissibile il ricorso.

Riprese video sugli abusi edilizi del vicino: è stalking

Condannate per stalking tre persone per aver fotografato e filmato più volte, lungo un arco temporale di due anni, il vicino di casa con l’obiettivo di certificare la realizzazione di abusi edilizi.

Cass. pen., sez. V, ud. 27 giugno 2025 (dep. 31 luglio 2025), n. 28146

Per i giudici di merito non ci sono dubbi: a fronte di un quadro probatorio chiarissimo, è configurabile lo stalking.
Debole infatti, la tesi difensiva circa lo scopo delle riprese: certificare il compimento di opere edilizie abusive.

Con ricorso per cassazione l’avvocato sottolinea che i suoi tre clienti «volevano semplicemente evitare che il vicino continuasse a realizzare opere abusive che insistevano sul muro di loro proprietà».
«Le riprese» incriminate, e catalogate come stalking, «sono state effettuate» solo «per dimostrare ai vigili urbani gli abusi edilizi» compiuti dal vicino.
«Le minacce erano finalizzate a far cessare un comportamento palesemente criminoso posto in essere dal vicino», accusato a sua volta, in un altro procedimento, «per il reato di abuso d’atti di ufficio e di abuso edilizio».

Per i magistrati di Cassazione la linea difensiva «tende a far leva sugli abusi edilizi che aveva posto in essere la persona offesa» e punta così a «ricondurre le condotte delle tre persone sotto processo all’esercizio di un diritto, quello di proprietà, facendo generico riferimento all’esigenza di evitare che il vicino di casa – la persona offesa – continuasse a realizzare opere abusive sul confine prediale ovvero sul muro di proprietà».
In tale ottica dunque, «difetterebbe», annotano i giudici, «il male ingiusto che deve sussistere affinché possa ritenersi integrata la minaccia.

Tuttavia, prescindendo dalla circostanza degli abusi edilizi posti in essere dalla persona offesa e dalle relative pretese delle tre persone sotto processo, pretese in ogni caso tutelabili attraverso i rimedi che offre l’ordinamento, «le minacce e le ingiurie» verso il vicino e «l’attività di ripresa e fotografia delle condotte poste in essere dal vicino» rappresentano «atti persecutori per contenuti, portata e reiterazione nel tempo – due anni –, avendo, esse, tra l’altro, finito per costringere la persona offesa a mutare le sue abitudini di vita», costringendola «a vivere in un costante stato di ansia e timore» per sé e per i figli.

Inoltre, i magistrati di Cassazione, condividendo le argomentazioni adottate in Appello, chiariscono che «anche l’eventuale realizzazione illecita di opere edilizie da parte della persona offesa non avrebbe potuto giustificare le intollerabili condotte poste in essere dalle tre persone sotto processo, che hanno scientemente e reiteratamente ingiuriato e minacciato» il vicino, «con frasi involgenti anche terze persone estranee alla contesa» e «ingenerando in lui», come detto, «un grave stato d’ansia, che l’induceva a modificare le abitudini di vita anche dei propri familiari».
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Riprese video sugli abusi edilizi del vicino: è stalking

Condannate per stalking tre persone per aver fotografato e filmato più volte, lungo un arco temporale di due anni, il vicino di casa con l’obiettivo di certificare la realizzazione di abusi edilizi.

Cass. pen., sez. V, ud. 27 giugno 2025 (dep. 31 luglio 2025), n. 28146

Per i giudici di merito non ci sono dubbi: a fronte di un quadro probatorio chiarissimo, è configurabile lo stalking. 
Debole infatti, la tesi difensiva circa lo scopo delle riprese: certificare il compimento di opere edilizie abusive.

Con ricorso per cassazione l’avvocato sottolinea che i suoi tre clienti «volevano semplicemente evitare che il vicino continuasse a realizzare opere abusive che insistevano sul muro di loro proprietà». 
 «Le riprese» incriminate, e catalogate come stalking, «sono state effettuate» solo «per dimostrare ai vigili urbani gli abusi edilizi» compiuti dal vicino.
«Le minacce erano finalizzate a far cessare un comportamento palesemente criminoso posto in essere dal vicino», accusato a sua volta, in un altro procedimento, «per il reato di abuso d’atti di ufficio e di abuso edilizio».
 
Per i magistrati di Cassazione la linea difensiva «tende a far leva sugli abusi edilizi che aveva posto in essere la persona offesa» e punta così a «ricondurre le condotte delle tre persone sotto processo all’esercizio di un diritto, quello di proprietà, facendo generico riferimento all’esigenza di evitare che il vicino di casa – la persona offesa – continuasse a realizzare opere abusive sul confine prediale ovvero sul muro di proprietà».
In tale ottica dunque, «difetterebbe», annotano i giudici, «il male ingiusto che deve sussistere affinché possa ritenersi integrata la minaccia. 

Tuttavia, prescindendo dalla circostanza degli abusi edilizi posti in essere dalla persona offesa e dalle relative pretese delle tre persone sotto processo, pretese in ogni caso tutelabili attraverso i rimedi che offre l’ordinamento, «le minacce e le ingiurie» verso il vicino e «l’attività di ripresa e fotografia delle condotte poste in essere dal vicino» rappresentano «atti persecutori per contenuti, portata e reiterazione nel tempo – due anni –, avendo, esse, tra l’altro, finito per costringere la persona offesa a mutare le sue abitudini di vita», costringendola «a vivere in un costante stato di ansia e timore» per sé e per i figli.

Inoltre, i magistrati di Cassazione, condividendo le argomentazioni adottate in Appello, chiariscono che «anche l’eventuale realizzazione illecita di opere edilizie da parte della persona offesa non avrebbe potuto giustificare le intollerabili condotte poste in essere dalle tre persone sotto processo, che hanno scientemente e reiteratamente ingiuriato e minacciato» il vicino, «con frasi involgenti anche terze persone estranee alla contesa» e «ingenerando in lui», come detto, «un grave stato d’ansia, che l’induceva a modificare le abitudini di vita anche dei propri familiari».
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