LA CONVIVENZA MORE UXORIO NON ESCLUDE LA DISCRIMINAZIONE DEL LICENZIAMENTO PER CAUSA DI MATRIMONIO
La pregressa convivenza more uxorio non rende inapplicabile la tutela che l’art. 35 d.lgs. n. 198/2006 accorda alla donna per il licenziamento per causa di matrimonio. Infatti, in tale fattispecie ciò che rileva non è l’intento – discriminatorio o meno – del datore di lavoro, bensì il dato oggettivo che il licenziamento è avvenuto nel periodo di un anno dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio cui è seguita la celebrazione dello stesso.
Cass. civ., sez. lav., sent., 22 maggio 2024, n. 14301
La Suprema Corte affronta il caso di una lavoratrice licenziata dopo aver comunicato il suo prossimo matrimonio. Nei primi due gradi di giudizio i giudici milanesi, accertato che il recesso era intervenuto nel periodo di divieto sancito dall'art. 35 d.lgs. n. 198/2006 (cd. Codice delle pari opportunità), avevano concluso per la nullità del licenziamento, con condanna alla reintegrazione e al risarcimento delle retribuzioni medio tempore maturate, ritenendo irrilevante la dedotta convivenza more uxorio pregressa.
Tra i vari motivi di ricorso per cassazione il datore di lavoro ha eccepito la violazione e la falsa applicazione dell'art. 35 CPO e dell'art. 2 d.lgs.. n. 23/2015, per aver errato la sentenza di secondo grado nel confermare la dichiarazione di nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo adottato nei confronti della lavoratrice dopo aver ricevuto la notizia del suo imminente matrimonio, in quanto, essendo ella impegnata in un rapporto di stabile convivenza, doveva ritenersi inoperante, al momento del recesso, la presunzione di nullità prevista dal predetto art. 35, attesa la comparabilità della convivenza al matrimonio.
Nel confermare la decisione di secondo grado la Corte di Cassazione ha ricordato che la limitazione alle sole lavoratrici della nullità prevista dall'art. 35 CPO non ha natura discriminatoria, in quanto la diversità di trattamento non trova giustificazione nel genere del soggetto che presta l'attività lavorativa, ma è coerente con la realtà sociale, che ha reso necessarie misure legislative volte a garantire alla donna la possibilità di coniugare il diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare.
Per tali ragioni, accertato che un recesso è intervenuto durante il periodo di divieto previsto dall'art. 35 CPO, opera la presunzione di discriminatorietà del licenziamento per causa di matrimonio. Si tratta di presunzione legale relativa, che il datore di lavoro può superare solo se fornisce la prova della sussistenza di una delle cause di esclusione previste dal comma 5 della medesima norma (e, cioè, la colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto, la cessazione dell'attività dell'azienda o l'ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta a o la risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine), a nulla rilevando alcun'altra circostanza, quale – ad esempio – la pregressa convivenza more uxorio.
Ciò comporta che i giudici non sono tenuti a svolgere alcuna istruttoria su qualsiasi altra condizione soggettiva o ragione di recesso che, quand'anche sussistesse e risultasse provata, non escluderebbe l'operatività di tale presunzione. ... Vedi altroVedi meno
DISTURBO DELLA QUIETE PUBBLICA: NON SERVE LA PERIZIA, BASTA LA PROVA CHE I RUMORI INVESTONO PIU' PERSONE
«L’affermazione di responsabilità per il reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone di cui all’art. 651, comma 1, c.p., posto a tutela dell’ordine pubblico inteso come aspetto della tranquillità pubblica, non implica, attesa la natura di illecito di pericolo presunto, la prova dell’effettivo disturbo di più persone mediante effettuazione di perizia fonometrica, ma è sufficiente che il giudice, con qualunque mezzo, accerti l’idoneità in concreto della diffusività del rumore a disturbarne un numero indeterminato, pur se poi concretamente solo taluna di esse se ne possa lamentare».
Cass. pen., sez. IV, ud. 17 aprile 2024 (dep. 20 maggio 2024), n. 19748
il Tribunale monocratico di Taranto condannava un imputato, titolare di un'impresa edile, alla pena di giustizia nonché al risarcimento dei danni subiti dalle parti civili in relazione al reato di cui all'art. 659 c.p, per aver disturbato l'occupazione e il riposo di due persone e delle rispettive famiglie facendo stazionare i camion della propria azienda con i motori accesi sotto le loro abitazioni o nelle immediate vicinanze per il carico e scarico della merce, in orari vietati (dalle 5 alle 7 del mattino e dalle 14 alle 16 del pomeriggio).
La Corte ribadisce la necessità che il fastidio sonoro non sia limitato agli appartamenti attigui alla sorgente rumorosa o agli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante alla fonte di propagazione, occorrendo invece che la propagazione delle onde sonore sia estesa quanto meno ad una consistente parte degli occupanti l'edificio, in modo da avere una diffusa attitudine offensiva ed un'idoneità a turbare la pubblica quiete. Ciò perché la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, avuto riguardo al bene protetto, sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare.
Allorché il giudice di merito riscontri tale situazione, è del tutto indifferente che una o più persone abbiano effettivamente avvertito il disturbo, avendosi comunque una lesione del bene giuridico tutelato dalla norma di pericolo in esame, cioè l'ordine pubblico inteso come tranquillità pubblica. Di contro, quando la suddetta situazione di fatto non ricorra, le lamentele di una o più persone non bastano ad integrare la materialità del reato in argomento, ma è indispensabile una valutazione in concreto del pericolo creato alla quiete pubblica, da valutarsi con riferimento all'ambito spaziale delle propagazioni sonore.
La prova non dovrà necessariamente consistere in un accertamento effettuato mediante perizia o consulenza tecnica fonometrica ma ben può fondare il giudice il suo convincimento su elementi probatori di diversa natura acquisiti agli atti, quali le dichiarazioni di coloro che siano in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti che per le modalità di uso e di propagazione la fonte sonora emetta rumori fastidiosi di intensità tale da superare i limiti di normale tollerabilità, riferita alla media sensibilità delle persone che vivono nell'ambiente, in contrasto con la tutela della tranquillità pubblica costituzionalmente protetta. ... Vedi altroVedi meno
IL CITTADINO CHE SI SENTE SORVEGLIATO DALLA TELECAMERA DI UN VICINO PUO' RICHIEDERE IL SOPRALLUOGO DEI VIGILI.
Il comando di polizia che riceve una segnalazione in materia di videosorveglianza può attivare un accertamento amministrativo ai sensi dell’art. 13 della legge n. 689/1981 e relazionare direttamente all’Autorità.
Il Garante ribadisce che il trattamento dei dati effettuato da una persona fisica per l'esercizio di attività a carattere esclusivamente personale e domestico risulta fuori dall'ambito di applicazione del regolamento europeo sulla protezione dei dati. L'utilizzo domestico dei sistemi di videosorveglianza da parte di persone fisiche deve ritenersi, in linea di massima, escluso dall'ambito di applicazione materiale delle disposizioni in materia di protezione dei dati. Ma solo se i filmati non finiscono in rete o vengono diffusi e il trattamento risulta limitato alle zone strettamente private evitando riprese di aree comuni, luoghi aperti al pubblico o di proprietà di terzi. Si possono installare liberamente telecamere in casa purché il cono di ripresa sia limitato alle zone private anche facendo ricorso a funzionalità di oscuramento elettronico della ripresa.
In casi eccezionali e motivati il privato potrà estendere l'angolo di ripresa oltre alla soglia di casa, prosegue la nota centrale, ma facendo sempre molta attenzione alle zone di pertinenze di terzi. Anche per non incorrere nel reato di interferenza illecita nella vita privata previsto dall'art. 615-bis c.p. Ed in ogni caso segnalando adeguatamente il dispositivo.
Circa il potere di intervento degli organi di polizia locale, conclude l'Autorità, «si ritiene che eventuali attività possano comunque essere effettuate, se del caso, sulla base del potere generale previsto dalla legge 689/1981, almeno con riferimento ai luoghi pubblici o aperti al pubblico in cui l'esercizio di tali poteri possa prescindere da specifiche autorizzazioni da parte dell'Autorità giudiziaria, oppure comunque con il consenso informato dell'avente diritto». ... Vedi altroVedi meno
CONTRASTO TRA GENITORI SEPARATI NELLA SCELTA DELLA SCUOLA: PREVALE L'INTERESSE DEL MINORE
In caso di disaccordo tra i genitori sulla scelta della scuola del figlio, pubblica o privata religiosa, la laicità dello Stato non può trasformarsi in un principio superiore rispetto a tutti gli altri al punto da orientare necessariamente la scelta verso un istituto pubblico.
Cass. civ., sez. II, ord., 16 maggio 2024, n. 13570
Oggetto della contesa tra i due ex coniugi è l'istituto scolastico a cui iscrivere il figlio una volta terminate le elementari: la madre, infatti, aveva ottenuto dal Tribunale l'autorizzazione all'iscrizione in prima media presso l'istituto privato religioso già frequentato dal minore, anche senza il consenso del padre. La Corte di Appello aveva confermato la decisione di primo grado, sottolineando che dall'audizione del minore era emerso il suo desiderio di poter continuare a frequentare il medesimo istituto, «dove aveva numerose amicizie e buoni rapporti con gli insegnanti».
Il padre, nell'impugnare la decisione, lamentava che essa «vanifica la laicità delle scuole pubbliche», realizzando una «coazione del minore verso una determinata religione», e che «i desideri espressi dal bambino non avrebbero dovuto assumere un rilievo decisivo circa la scelta in questione, così importante per la crescita».
Il ricorso è infondato. Per i Giudici «deve essere risolto in considerazione dell'esigenza di tutelare il preminente interesse dei minori a una crescita sana ed equilibrata, e importa una valutazione di fatto che può ben essere fondata sull'esigenza, in una fase esistenziale già caratterizzata dalle difficoltà conseguenti alla separazione dei genitori, di non introdurre fratture e discontinuità ulteriori, come facilmente conseguenti alla frequentazione di una nuova scuola, assicurando ai figli minori la continuità ambientale nel campo in cui si svolge propriamente la loro sfera sociale ed educativa» (Cass. n. 21553/2021). «in caso di contrasto tra genitori in ordine a questioni di maggiore interesse per i figli minori, la relativa decisione, ai sensi dell'art. 337-ter, comma 3, c.p.c., è rimessa al giudice, il quale, chiamato, in via del tutto eccezionale, a ingerirsi nella vita privata della famiglia attraverso l'adozione dei provvedimenti relativi in luogo dei genitori, deve tener conto esclusivamente del superiore interesse, morale e materiale, del minore a una crescita sana ed equilibrata». ... Vedi altroVedi meno
Abbandono di rifiuti: sequestrato il furgone aziendale anche se i rifiuti non erano dell’attività
Inutile per l’indagato lamentare il fatto che la condotta contestata aveva ad oggetto rifiuti di natura domestica, estranei quindi all’attività di impresa di cui egli era titolare ed alla quale era intestato il furgone finito sotto sequestro.
Cass. pen., sez. III, ud. 18 gennaio 2024 (dep. 8 maggio 2024), n. 18046
Il provvedimento è oggetto di impugnazione da parte dell'uomo che lamenta l'insussistenza del fumus del reato in quanto il Tribunale avrebbe trascurato il fatto che il furgone sequestrato era intestato all'attività di impresa di cui egli era titolare mentre il reato contestato era riferito a rifiuti di natura domestica abbandonati in qualità di persona fisica ed estranei, dunque, all'esercizio della sua attività d'impresa.
La tesi difensiva risulta infondata. Da un lato infatti tale prospettazione avrebbe l'effetto di escludere dalla fattispecie penale in questione la condotta dell'imprenditore che abbandona rifiuti prodotti da altri, dall'altro lato farebbe dipendere la penale rilevanza della condotta dalla natura del rifiuto abbandonato, con l'effetto per cui «l'abbandono di rifiuti domestici sarebbe penalmente irrilevante».
Infine, richiamando un altro precedente (Cass. pen. n. 33423/2023) secondo cui non integra la contravvenzione in parola la condotta di un imprenditore che abbandoni o depositi rifiuti estranei dallo svolgimento della sua attività, la Corte precisa il principio di diritto secondo cui «ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152/2006, è necessaria e sufficiente la qualifica soggettiva dell'autore della condotta, non essendo altresì richiesto che i rifiuti abbandonati derivino dalla specifica attività di impresa, posto che il reato in esame può essere commesso dai titolari di impresa o responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato non solo rifiuti di propria produzione, ma anche quelli di diversa provenienza ». ... Vedi altroVedi meno
Illegittimo il licenziamento del lavoratore sorpreso dai Carabinieri con sei grammi di eroina in auto
Cass. civ., sez. lav., ord., 7 maggio 2024, n. 12306
Per dirimere la controversia in oggetto, il Collegio ricorda che in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, «la valutazione della gravità e proporzionalità della condotta rientra nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, con la quale viene riempita di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.»; in proposito, «questa Corte non può sostituirsi al giudice del merito nell'attività di riempimento di concetti giuridici indeterminati, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, e tale sindacato sulla ragionevolezza non è quindi relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell'ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione; l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale» (Cass. n. 26043/2023, Cass. n. 30866/2023, Cass. n. 6827/2024).
E la sentenza impugnata risulta conforme ai suddetti principi, valutando la condotta extra-lavorativa del ricorrente, in sede penale ritenuta non costituente reato, e quindi «di disvalore sociale minore rispetto a condotta costituente reato, e in assenza di prova di danni all'immagine del datore di lavoro, non tale da incidere negativamente in via definitiva sullo svolgimento e proseguimento dell'attività lavorativa».
Basta la violenza verbale per far scattare l’aggravante dei maltrattamenti familiari assistiti da minori
Non occorre che le condotte vessatorie realizzate in presenza dei minori abbiano necessariamente il contenuto proprio della violenza fisica.
Cass. pen., sez. VI, ud. 4 aprile 2024 (dep. 7 maggio 2024), n. 17845
Il caso trae origine dal ricorso di un uomo accusato di maltrattamenti in famiglia nei confronti della moglie e in presenza dei figli minori: nello specifico, l’uomo contesta l'aggravante della violenza assistita ascrittagli, pur avendo la moglie escluso che le aggressioni si fossero realizzate in presenza dei figli.
Il ricorso è infondato. La Corte, infatti, ricorda che, affinché operi l'aggravante della violenza assistita, non occorre che le condotte vessatorie realizzate in presenza dei minori abbiano necessariamente il contenuto proprio della violenza fisica, «potendo apprezzarsi a tal fine anche quelle verbalmente violente o tipicamente dispregiative che contribuiscono, nella loro abitualità, a dare corpo al contesto maltrattante destinato a fondare l'ipotesi di reato di cui all'art 572 c.p.».
Nel caso in esame, secondo quanto riferito dalla moglie, i figli non avrebbero "mai assistito a violenze fisiche", ma dal suo racconto emerge che era certa la loro presenza "ai numerosi litigi per motivi economici o legati all'uso di alcol": il tenore dell’affermazione resa dalla donna, dunque, secondo i Giudici, «non può che leggersi alla luce del complessivo contesto familiare, dominato dagli agiti, anche solo verbalmente, aggressivi realizzati dall'imputato ai danni della persona offesa».
Rigettato, dunque, il ricorso dell’imputato, che dovrà pagare le spese processuali. ... Vedi altroVedi meno
L’opportunità lavorativa per l’ex moglie non legittima il trasferimento con i figli a 850 km dall’ex marito
Necessario valutare, secondo i giudici, i potenziali rischi per la bigenitorialità, soprattutto considerando che i due ex coniugi hanno trovato un’intesa sull’affido condiviso dei tre figli minorenni.
Cass. civ., sez. I, ord., 7 maggio 2024, n. 12282
Ufficializzata la rottura tra moglie e marito, si arriva consensualmente ad un accordo tra loro, accordo che prevede, tra l'altro, l'affido condiviso dei tre figli minorenni, destinati però a vivere con la madre. A rompere questa situazione di equilibrio arriva la richiesta avanzata dalla donna per vedere autorizzato il suo trasferimento, unitamente ai tre figli, a circa 850 chilometri di distanza alla città in cui risiedono sia lei che l'ex marito, per poter sfruttare un'importante offerta di lavoro.
Per i giudici di merito, di primo e secondo grado, l'istanza avanzata dalla donna è legittima, pertanto, pur senza modificare il regime di affido condiviso dei tre minorenni, accolgono l'istanza di trasferimento presentata dalla donna.
La Cassazione è di avviso diverso. I Giudici ritengono necessario un approfondimento in Appello per valutare con grande attenzione l'ipotesi dell'autorizzazione al trasloco – ad 850 chilometri dalla residenza dell'uomo – dell'ex moglie, assieme al suo nuovo compagno, e dei tre figli.
Va tenuto presente che i giudici di secondo grado, a fronte dell'opposizione dell'uomo all'idea del trasferimento dei figli lontanissimo dal luogo di residenza della famiglia prima della crisi coniugale, hanno fatto riferimento a presunte «inequivoche volontà espresse da due figli minori, intese come favorevoli al trasferimento». Nello specifico, i due minorenni «hanno dichiarato entrambi di essere felici di trasferirsi nella nuova città che già conoscono per esservi stati spesso con la madre ed il suo compagno, di aver già visto le scuole presso le quali saranno iscritti, di essere certi del fatto che, in caso di loro disagio, tornerebbero nella città di origine, come promesso dalla madre, di non aver alcuna intenzione di sostituire il padre con la figura del compagno della madre, di essere certi di tornare nella città di origine ogni qualvolta lo vorranno e che il padre potrà recarsi da loro senza alcun problema». Queste dichiarazioni non sono però sufficienti, secondo i giudici di Cassazione, poiché «il trasferimento della prole in località distante parecchi chilometri da quella di residenza del padre non potrà non essere di ostacolo alla frequentazione del genitore coi figli, nonostante al primo sia stata riconosciuta la facoltà di vederli e tenerli quando desidera». Necessario, perciò, valutare «la considerevole distanza tra le due città, distanza che non consente frequentazioni giornaliere, se non della durata di poche ore, ma al contrario solo visite di più giorni, data la notevole durata del viaggio». In questo quadro, poi, bisogna tenere conto, aggiungono i magistrati, che «i tre figli, frequentando la scuola, corsi sportivi, palestra, et cetera, non possono certo assentarsi troppo tempo dalla città di» nuova «residenza, quantomeno nel lungo periodo scolastico, senza individuare idonee compensazioni». Tirando le somme, «il trasferimento della donna coi tre figli potrebbe configurare una violazione del diritto alla bigenitorialità», chiosano i magistrati. ... Vedi altroVedi meno
FOTO DEL PROFILO WHATSAPP OFFENSIVA: LEGITTIMO PARLARE DI DIFFAMAZIONE
Confermata la condanna di un uomo, finito sotto processo per i comportamenti tenuti, nella realtà e online, nei confronti dell’ex compagna. Indiscutibile il reato di stalking secondo i Giudici, i quali sottolineano anche la gravità della diffusione su WhatsApp di una foto mirata ad offendere la donna.
Cass. pen., sez. V, ud. 23 gennaio 2024 (dep. 24 aprile 2024), n. 17141
Basta una foto offensiva impostata come profilo personale di WhatsApp per subire una condanna per diffamazione: l’uomo è colpevole di atti persecutori e di diffamazione, reati commessi ai danni dell’ex compagna. Fondata, secondo i giudici, la tesi accusatoria, secondo cui l’uomo, da un lato, «ha cagionato alla persona offesa, con reiterate ingiurie e minacce ed altre condotte offensive, un grave e perdurante stato d’ansia, e ha ingenerato nella medesima persona il fondato timore per la propria incolumità personale, costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita» e, dall’altro, «ne ha offeso l’onore e la reputazione della persona offesa, divulgando una fotografia che la raffigurava», accompagnata da una frase offensiva.
Condanna confermata anche dalla Cassazione.
Per quanto riguarda la diffamazione, poi, i magistrati ritengono inverosimile la versione dell’uomo, il quale ha sostenuto di avere semplicemente compiuto un errore nell’impostare la foto incriminata come quella del proprio profilo su WhatsApp, e aggiungono che «la rimozione della foto non può privare di penale rilevanza il fatto e l’offesa già arrecata alla vittima». I Giudici ricordano che «il reato di diffamazione si configura quando il messaggio può essere letto da più persone, anche se tra di esse vi è la persona offesa» e precisano che nella vicenda oggetto del processo «risulta evidente la divulgazione del messaggio offensivo, essendo il profilo WhatsApp dell’uomo accessibile quantomeno a tutti gli utenti del social network il cui contatto era inserito nella sua rubrica del telefono». ... Vedi altroVedi meno
I MODIGLIONI DEI BALCONI SONO PARTE CONDOMINIALE SE SVOLGONO UNA FUNZIONE ESTETICA PER L'INTERO STABILE.
I balconi del condominio non sono necessariamente parti comuni: lo sono, specialmente i modiglioni e i rivestimenti, se svolgono in concreto una funzione per il palazzo, ad esempio contribuendo al suo decoro architettonico.
Trib. Torino, sez. VIII, sent., 1 marzo 2024, n. 1360
Una società condomina impugnava una delibera assembleare del proprio palazzo chiedendo la dichiarazione di annullabilità in merito alla decisione di intraprendere dei lavori di rifacimento dei balconi dello stabile. L'assemblea sarebbe stata invalida in quanto questa avrebbe deliberato sul rifacimento dei modiglioni dei balconi i quali, parti private, non avrebbero potuto essere oggetto di decisioni del condominio. Ai sensi dell'art. 1117 c.c., infatti, i modiglioni non sarebbero stati annoverati tra le parti comuni e quindi l'assemblea non avrebbe avuto alcuna possibilità di decidere sul rifacimento degli stessi.
Si costituiva in giudizio il Condominio, negando le ragioni dell'attrice e insistendo per la validità della delibera assunta.
Con la sentenza n. 1360 del 1° marzo 2024, il Tribunale di Torino rigettava la domanda attorea.
Dalle risultanze istruttorie, infatti, era risultato che i modiglioni in questione, lungi dall'essere parti meramente strutturali, svolgevano anche una funzione decorativa nella facciata condominiale, contribuendo al decoro architettonico dello stabile. Secondo la Cassazione, infatti, i rivestimenti dei balconi devono essere considerati parti condominiali se «svolgono in svolgono in concreto una prevalente, e perciò essenziale, funzione estetica per l'edificio, divenendo così elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata e contribuendo a renderlo esteticamente gradevole» (si veda Cass. n. 10848/2020). ... Vedi altroVedi meno
Le violazioni, anche in tempi diversi, della medesima norma relativa alla circolazione di un veicolo non avente i requisiti amministrativi richiesti dalla legge devono essere considerate come un'unica infrazione.
Cass. civ., sez. II, ord., 17 luglio 2024, n. 19680
La vicenda in esame origina dall'opposizione presentata con separati ricorsi da un'automobilista avverso 39 verbali di violazione dell'art. 7, commi 9 e 14, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, notificati in due tranches, nonché avverso ulteriori 19 verbali di violazione delle medesime norme, di nuovo notificati in due tranches, elevati dalla Polizia Municipale all'opponente per aver circolato nella zona a traffico limitato sprovvista di autorizzazione.
La donna deduceva di essere incorsa in errore incolpevole, avendo la convinzione di essere ancora titolare del permesso di circolare nella zona a traffico limitato, non avendo l'amministrazione comunale inviatole alcuna comunicazione a distanza di circa due anni dal cambio di residenza, né avrebbe mai irrogato e notificato alcuna sanzione amministrativa prima di quelle oggetto di impugnazione.
Sia in primo che in secondo grado, i giudici, in parziale accoglimento dei ricorsi, annullavano tutti i verbali tranne uno.
Ricorre in Cassazione il Comune, il quale contesta che, pur avendo il giudice accertato che si tratta di una pluralità di condotte, «ne ha erroneamente ed illogicamente dedotto la riconducibilità dell'aspetto colposo delle violazioni alla sola prima infrazione commessa in forza di un'improbabile unificazione delle singole condotte»; invece, la configurazione di tali illeciti come un tutt'uno presupporrebbe il loro inquadramento nella categoria del concorso formale, tuttavia espressamente escluso per le violazioni alla disciplina in tema di zona traffico limitato ed aree pedonali dall'art. 198, comma 2, CdS.
II motivo è infondato. La Corte, infatti, afferma che nel caso di specie le trasgressioni compiute dall'automobilista non integrano un'ipotesi di concorso formale, il quale richiede l'unicità dell'azione (od omissione) produttiva della pluralità di violazioni (ex multis: Cass. n. 10890/2018): le violazioni, anche in tempi diversi, della medesima norma relativa alla circolazione di un veicolo non avente i requisiti amministrativi richiesti dalla legge devono, semmai, essere considerate come un'unica infrazione in quanto reiterazioni del medesimo illecito amministrativo (reiterazione specifica), ai sensi della legge vigente ratione temporis, «stante la sostanziale omogeneità degli illeciti perpetrati, e avuto riguardo alla natura dei fatti che le costituiscono e alle modalità della condotta».
Il Collegio, quindi, conferma la soluzione adottata dal giudice di secondo grado, laddove ritiene valido ed efficace un unico verbale di contestazione: non si tratta, infatti, di escludere l'elemento soggettivo del trasgressore con riferimento alle violazioni successive, quanto piuttosto, «di elidere la valutazione delle violazioni amministrative successive alla prima» (Cass. n. 2965/2016).
PERMESSI SINDACALI: L'ABUSO COMPORTA IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE
Respinte definitivamente le obiezioni sollevate da un oramai ex dipendente di un’azienda tessile. Evidente, secondo i Giudici, la gravità della condotta da lui tenuta, provata grazie all’intervento di un investigatore privato.
Cass. civ, sez. lav., ord., 26 luglio 2024, n. 20972ù
Legittimo il licenziamento del dipendente che ha usufruito di permessi retribuiti per attività sindacale ma, in realtà, ha impiegato quei giorni di assenza per questioni esclusivamente personali. E, aggiungono i Giudici, legittimo l'operato dell'azienda, che ha provveduto a far pedinare il dipendente al fine di provare l'irregolarità della condotta.
A finire nel mirino è un dipendente che, in qualità di sindacalista, ha potuto usufruire di alcuni permessi retribuiti, necessari, a suo dire, per svolgere attività sindacale. Tutto in regola, almeno sulla carta, perché, invece, un investigatore privato pedina, su incarico dell'azienda tessile, il lavoratore e accerta che quest'ultimo ha utilizzato per questioni personali le giornate di assenza – regolarmente retribuite – concessegli dal datore di lavoro per impegni legati all'opera del sindacato. Questa scoperta è sufficiente, secondo l'azienda, per licenziare il dipendente.
E questa posizione è condivisa anche dai giudici di merito, i quali ritengono, sia in primo che in secondo grado, grave la condotta tenuta dal lavoratore. Su questo fronte viene fatta chiarezza in appello ... Vedi altroVedi meno
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LA CONVIVENZA MORE UXORIO NON ESCLUDE LA DISCRIMINAZIONE DEL LICENZIAMENTO PER CAUSA DI MATRIMONIO
La pregressa convivenza more uxorio non rende inapplicabile la tutela che l’art. 35 d.lgs. n. 198/2006 accorda alla donna per il licenziamento per causa di matrimonio. Infatti, in tale fattispecie ciò che rileva non è l’intento – discriminatorio o meno – del datore di lavoro, bensì il dato oggettivo che il licenziamento è avvenuto nel periodo di un anno dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio cui è seguita la celebrazione dello stesso.
Cass. civ., sez. lav., sent., 22 maggio 2024, n. 14301
La Suprema Corte affronta il caso di una lavoratrice licenziata dopo aver comunicato il suo prossimo matrimonio. Nei primi due gradi di giudizio i giudici milanesi, accertato che il recesso era intervenuto nel periodo di divieto sancito dall'art. 35 d.lgs. n. 198/2006 (cd. Codice delle pari opportunità), avevano concluso per la nullità del licenziamento, con condanna alla reintegrazione e al risarcimento delle retribuzioni medio tempore maturate, ritenendo irrilevante la dedotta convivenza more uxorio pregressa.
Tra i vari motivi di ricorso per cassazione il datore di lavoro ha eccepito la violazione e la falsa applicazione dell'art. 35 CPO e dell'art. 2 d.lgs.. n. 23/2015, per aver errato la sentenza di secondo grado nel confermare la dichiarazione di nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo adottato nei confronti della lavoratrice dopo aver ricevuto la notizia del suo imminente matrimonio, in quanto, essendo ella impegnata in un rapporto di stabile convivenza, doveva ritenersi inoperante, al momento del recesso, la presunzione di nullità prevista dal predetto art. 35, attesa la comparabilità della convivenza al matrimonio.
Nel confermare la decisione di secondo grado la Corte di Cassazione ha ricordato che la limitazione alle sole lavoratrici della nullità prevista dall'art. 35 CPO non ha natura discriminatoria, in quanto la diversità di trattamento non trova giustificazione nel genere del soggetto che presta l'attività lavorativa, ma è coerente con la realtà sociale, che ha reso necessarie misure legislative volte a garantire alla donna la possibilità di coniugare il diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare.
Per tali ragioni, accertato che un recesso è intervenuto durante il periodo di divieto previsto dall'art. 35 CPO, opera la presunzione di discriminatorietà del licenziamento per causa di matrimonio.
Si tratta di presunzione legale relativa, che il datore di lavoro può superare solo se fornisce la prova della sussistenza di una delle cause di esclusione previste dal comma 5 della medesima norma (e, cioè, la colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto, la cessazione dell'attività dell'azienda o l'ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta a o la risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine), a nulla rilevando alcun'altra circostanza, quale – ad esempio – la pregressa convivenza more uxorio.
Ciò comporta che i giudici non sono tenuti a svolgere alcuna istruttoria su qualsiasi altra condizione soggettiva o ragione di recesso che, quand'anche sussistesse e risultasse provata, non escluderebbe l'operatività di tale presunzione. ... Vedi altroVedi meno
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DISTURBO DELLA QUIETE PUBBLICA: NON SERVE LA PERIZIA, BASTA LA PROVA CHE I RUMORI INVESTONO PIU' PERSONE
«L’affermazione di responsabilità per il reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone di cui all’art. 651, comma 1, c.p., posto a tutela dell’ordine pubblico inteso come aspetto della tranquillità pubblica, non implica, attesa la natura di illecito di pericolo presunto, la prova dell’effettivo disturbo di più persone mediante effettuazione di perizia fonometrica, ma è sufficiente che il giudice, con qualunque mezzo, accerti l’idoneità in concreto della diffusività del rumore a disturbarne un numero indeterminato, pur se poi concretamente solo taluna di esse se ne possa lamentare».
Cass. pen., sez. IV, ud. 17 aprile 2024 (dep. 20 maggio 2024), n. 19748
il Tribunale monocratico di Taranto condannava un imputato, titolare di un'impresa edile, alla pena di giustizia nonché al risarcimento dei danni subiti dalle parti civili in relazione al reato di cui all'art. 659 c.p, per aver disturbato l'occupazione e il riposo di due persone e delle rispettive famiglie facendo stazionare i camion della propria azienda con i motori accesi sotto le loro abitazioni o nelle immediate vicinanze per il carico e scarico della merce, in orari vietati (dalle 5 alle 7 del mattino e dalle 14 alle 16 del pomeriggio).
La Corte ribadisce la necessità che il fastidio sonoro non sia limitato agli appartamenti attigui alla sorgente rumorosa o agli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante alla fonte di propagazione, occorrendo invece che la propagazione delle onde sonore sia estesa quanto meno ad una consistente parte degli occupanti l'edificio, in modo da avere una diffusa attitudine offensiva ed un'idoneità a turbare la pubblica quiete.
Ciò perché la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, avuto riguardo al bene protetto, sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare.
Allorché il giudice di merito riscontri tale situazione, è del tutto indifferente che una o più persone abbiano effettivamente avvertito il disturbo, avendosi comunque una lesione del bene giuridico tutelato dalla norma di pericolo in esame, cioè l'ordine pubblico inteso come tranquillità pubblica.
Di contro, quando la suddetta situazione di fatto non ricorra, le lamentele di una o più persone non bastano ad integrare la materialità del reato in argomento, ma è indispensabile una valutazione in concreto del pericolo creato alla quiete pubblica, da valutarsi con riferimento all'ambito spaziale delle propagazioni sonore.
La prova non dovrà necessariamente consistere in un accertamento effettuato mediante perizia o consulenza tecnica fonometrica ma ben può fondare il giudice il suo convincimento su elementi probatori di diversa natura acquisiti agli atti, quali le dichiarazioni di coloro che siano in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti che per le modalità di uso e di propagazione la fonte sonora emetta rumori fastidiosi di intensità tale da superare i limiti di normale tollerabilità, riferita alla media sensibilità delle persone che vivono nell'ambiente, in contrasto con la tutela della tranquillità pubblica costituzionalmente protetta. ... Vedi altroVedi meno
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IL CITTADINO CHE SI SENTE SORVEGLIATO DALLA TELECAMERA DI UN VICINO PUO' RICHIEDERE IL SOPRALLUOGO DEI VIGILI.
Il comando di polizia che riceve una segnalazione in materia di videosorveglianza può attivare un accertamento amministrativo ai sensi dell’art. 13 della legge n. 689/1981 e relazionare direttamente all’Autorità.
Il Garante ribadisce che il trattamento dei dati effettuato da una persona fisica per l'esercizio di attività a carattere esclusivamente personale e domestico risulta fuori dall'ambito di applicazione del regolamento europeo sulla protezione dei dati.
L'utilizzo domestico dei sistemi di videosorveglianza da parte di persone fisiche deve ritenersi, in linea di massima, escluso dall'ambito di applicazione materiale delle disposizioni in materia di protezione dei dati.
Ma solo se i filmati non finiscono in rete o vengono diffusi e il trattamento risulta limitato alle zone strettamente private evitando riprese di aree comuni, luoghi aperti al pubblico o di proprietà di terzi.
Si possono installare liberamente telecamere in casa purché il cono di ripresa sia limitato alle zone private anche facendo ricorso a funzionalità di oscuramento elettronico della ripresa.
In casi eccezionali e motivati il privato potrà estendere l'angolo di ripresa oltre alla soglia di casa, prosegue la nota centrale, ma facendo sempre molta attenzione alle zone di pertinenze di terzi.
Anche per non incorrere nel reato di interferenza illecita nella vita privata previsto dall'art. 615-bis c.p.
Ed in ogni caso segnalando adeguatamente il dispositivo.
Circa il potere di intervento degli organi di polizia locale, conclude l'Autorità, «si ritiene che eventuali attività possano comunque essere effettuate, se del caso, sulla base del potere generale previsto dalla legge 689/1981, almeno con riferimento ai luoghi pubblici o aperti al pubblico in cui l'esercizio di tali poteri possa prescindere da specifiche autorizzazioni da parte dell'Autorità giudiziaria, oppure comunque con il consenso informato dell'avente diritto». ... Vedi altroVedi meno
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CONTRASTO TRA GENITORI SEPARATI NELLA SCELTA DELLA SCUOLA: PREVALE L'INTERESSE DEL MINORE
In caso di disaccordo tra i genitori sulla scelta della scuola del figlio, pubblica o privata religiosa, la laicità dello Stato non può trasformarsi in un principio superiore rispetto a tutti gli altri al punto da orientare necessariamente la scelta verso un istituto pubblico.
Cass. civ., sez. II, ord., 16 maggio 2024, n. 13570
Oggetto della contesa tra i due ex coniugi è l'istituto scolastico a cui iscrivere il figlio una volta terminate le elementari: la madre, infatti, aveva ottenuto dal Tribunale l'autorizzazione all'iscrizione in prima media presso l'istituto privato religioso già frequentato dal minore, anche senza il consenso del padre.
La Corte di Appello aveva confermato la decisione di primo grado, sottolineando che dall'audizione del minore era emerso il suo desiderio di poter continuare a frequentare il medesimo istituto, «dove aveva numerose amicizie e buoni rapporti con gli insegnanti».
Il padre, nell'impugnare la decisione, lamentava che essa «vanifica la laicità delle scuole pubbliche», realizzando una «coazione del minore verso una determinata religione», e che «i desideri espressi dal bambino non avrebbero dovuto assumere un rilievo decisivo circa la scelta in questione, così importante per la crescita».
Il ricorso è infondato.
Per i Giudici «deve essere risolto in considerazione dell'esigenza di tutelare il preminente interesse dei minori a una crescita sana ed equilibrata, e importa una valutazione di fatto che può ben essere fondata sull'esigenza, in una fase esistenziale già caratterizzata dalle difficoltà conseguenti alla separazione dei genitori, di non introdurre fratture e discontinuità ulteriori, come facilmente conseguenti alla frequentazione di una nuova scuola, assicurando ai figli minori la continuità ambientale nel campo in cui si svolge propriamente la loro sfera sociale ed educativa» (Cass. n. 21553/2021).
«in caso di contrasto tra genitori in ordine a questioni di maggiore interesse per i figli minori, la relativa decisione, ai sensi dell'art. 337-ter, comma 3, c.p.c., è rimessa al giudice, il quale, chiamato, in via del tutto eccezionale, a ingerirsi nella vita privata della famiglia attraverso l'adozione dei provvedimenti relativi in luogo dei genitori, deve tener conto esclusivamente del superiore interesse, morale e materiale, del minore a una crescita sana ed equilibrata». ... Vedi altroVedi meno
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Abbandono di rifiuti: sequestrato il furgone aziendale anche se i rifiuti non erano dell’attività
Inutile per l’indagato lamentare il fatto che la condotta contestata aveva ad oggetto rifiuti di natura domestica, estranei quindi all’attività di impresa di cui egli era titolare ed alla quale era intestato il furgone finito sotto sequestro.
Cass. pen., sez. III, ud. 18 gennaio 2024 (dep. 8 maggio 2024), n. 18046
Il provvedimento è oggetto di impugnazione da parte dell'uomo che lamenta l'insussistenza del fumus del reato in quanto il Tribunale avrebbe trascurato il fatto che il furgone sequestrato era intestato all'attività di impresa di cui egli era titolare mentre il reato contestato era riferito a rifiuti di natura domestica abbandonati in qualità di persona fisica ed estranei, dunque, all'esercizio della sua attività d'impresa.
La tesi difensiva risulta infondata.
Da un lato infatti tale prospettazione avrebbe l'effetto di escludere dalla fattispecie penale in questione la condotta dell'imprenditore che abbandona rifiuti prodotti da altri, dall'altro lato farebbe dipendere la penale rilevanza della condotta dalla natura del rifiuto abbandonato, con l'effetto per cui «l'abbandono di rifiuti domestici sarebbe penalmente irrilevante».
Infine, richiamando un altro precedente (Cass. pen. n. 33423/2023) secondo cui non integra la contravvenzione in parola la condotta di un imprenditore che abbandoni o depositi rifiuti estranei dallo svolgimento della sua attività, la Corte precisa il principio di diritto secondo cui «ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152/2006, è necessaria e sufficiente la qualifica soggettiva dell'autore della condotta, non essendo altresì richiesto che i rifiuti abbandonati derivino dalla specifica attività di impresa, posto che il reato in esame può essere commesso dai titolari di impresa o responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato non solo rifiuti di propria produzione, ma anche quelli di diversa provenienza ». ... Vedi altroVedi meno
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Illegittimo il licenziamento del lavoratore sorpreso dai Carabinieri con sei grammi di eroina in auto
Cass. civ., sez. lav., ord., 7 maggio 2024, n. 12306
Per dirimere la controversia in oggetto, il Collegio ricorda che in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, «la valutazione della gravità e proporzionalità della condotta rientra nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, con la quale viene riempita di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.»; in proposito, «questa Corte non può sostituirsi al giudice del merito nell'attività di riempimento di concetti giuridici indeterminati, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, e tale sindacato sulla ragionevolezza non è quindi relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell'ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione; l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale» (Cass. n. 26043/2023, Cass. n. 30866/2023, Cass. n. 6827/2024).
E la sentenza impugnata risulta conforme ai suddetti principi, valutando la condotta extra-lavorativa del ricorrente, in sede penale ritenuta non costituente reato, e quindi «di disvalore sociale minore rispetto a condotta costituente reato, e in assenza di prova di danni all'immagine del datore di lavoro, non tale da incidere negativamente in via definitiva sullo svolgimento e proseguimento dell'attività lavorativa».
Pertanto, il motivo deve essere respinto. ... Vedi altroVedi meno
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Basta la violenza verbale per far scattare l’aggravante dei maltrattamenti familiari assistiti da minori
Non occorre che le condotte vessatorie realizzate in presenza dei minori abbiano necessariamente il contenuto proprio della violenza fisica.
Cass. pen., sez. VI, ud. 4 aprile 2024 (dep. 7 maggio 2024), n. 17845
Il caso trae origine dal ricorso di un uomo accusato di maltrattamenti in famiglia nei confronti della moglie e in presenza dei figli minori: nello specifico, l’uomo contesta l'aggravante della violenza assistita ascrittagli, pur avendo la moglie escluso che le aggressioni si fossero realizzate in presenza dei figli.
Il ricorso è infondato.
La Corte, infatti, ricorda che, affinché operi l'aggravante della violenza assistita, non occorre che le condotte vessatorie realizzate in presenza dei minori abbiano necessariamente il contenuto proprio della violenza fisica, «potendo apprezzarsi a tal fine anche quelle verbalmente violente o tipicamente dispregiative che contribuiscono, nella loro abitualità, a dare corpo al contesto maltrattante destinato a fondare l'ipotesi di reato di cui all'art 572 c.p.».
Nel caso in esame, secondo quanto riferito dalla moglie, i figli non avrebbero "mai assistito a violenze fisiche", ma dal suo racconto emerge che era certa la loro presenza "ai numerosi litigi per motivi economici o legati all'uso di alcol": il tenore dell’affermazione resa dalla donna, dunque, secondo i Giudici, «non può che leggersi alla luce del complessivo contesto familiare, dominato dagli agiti, anche solo verbalmente, aggressivi realizzati dall'imputato ai danni della persona offesa».
Rigettato, dunque, il ricorso dell’imputato, che dovrà pagare le spese processuali. ... Vedi altroVedi meno
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L’opportunità lavorativa per l’ex moglie non legittima il trasferimento con i figli a 850 km dall’ex marito
Necessario valutare, secondo i giudici, i potenziali rischi per la bigenitorialità, soprattutto considerando che i due ex coniugi hanno trovato un’intesa sull’affido condiviso dei tre figli minorenni.
Cass. civ., sez. I, ord., 7 maggio 2024, n. 12282
Ufficializzata la rottura tra moglie e marito, si arriva consensualmente ad un accordo tra loro, accordo che prevede, tra l'altro, l'affido condiviso dei tre figli minorenni, destinati però a vivere con la madre.
A rompere questa situazione di equilibrio arriva la richiesta avanzata dalla donna per vedere autorizzato il suo trasferimento, unitamente ai tre figli, a circa 850 chilometri di distanza alla città in cui risiedono sia lei che l'ex marito, per poter sfruttare un'importante offerta di lavoro.
Per i giudici di merito, di primo e secondo grado, l'istanza avanzata dalla donna è legittima, pertanto, pur senza modificare il regime di affido condiviso dei tre minorenni, accolgono l'istanza di trasferimento presentata dalla donna.
La Cassazione è di avviso diverso.
I Giudici ritengono necessario un approfondimento in Appello per valutare con grande attenzione l'ipotesi dell'autorizzazione al trasloco – ad 850 chilometri dalla residenza dell'uomo – dell'ex moglie, assieme al suo nuovo compagno, e dei tre figli.
Va tenuto presente che i giudici di secondo grado, a fronte dell'opposizione dell'uomo all'idea del trasferimento dei figli lontanissimo dal luogo di residenza della famiglia prima della crisi coniugale, hanno fatto riferimento a presunte «inequivoche volontà espresse da due figli minori, intese come favorevoli al trasferimento».
Nello specifico, i due minorenni «hanno dichiarato entrambi di essere felici di trasferirsi nella nuova città che già conoscono per esservi stati spesso con la madre ed il suo compagno, di aver già visto le scuole presso le quali saranno iscritti, di essere certi del fatto che, in caso di loro disagio, tornerebbero nella città di origine, come promesso dalla madre, di non aver alcuna intenzione di sostituire il padre con la figura del compagno della madre, di essere certi di tornare nella città di origine ogni qualvolta lo vorranno e che il padre potrà recarsi da loro senza alcun problema».
Queste dichiarazioni non sono però sufficienti, secondo i giudici di Cassazione, poiché «il trasferimento della prole in località distante parecchi chilometri da quella di residenza del padre non potrà non essere di ostacolo alla frequentazione del genitore coi figli, nonostante al primo sia stata riconosciuta la facoltà di vederli e tenerli quando desidera».
Necessario, perciò, valutare «la considerevole distanza tra le due città, distanza che non consente frequentazioni giornaliere, se non della durata di poche ore, ma al contrario solo visite di più giorni, data la notevole durata del viaggio».
In questo quadro, poi, bisogna tenere conto, aggiungono i magistrati, che «i tre figli, frequentando la scuola, corsi sportivi, palestra, et cetera, non possono certo assentarsi troppo tempo dalla città di» nuova «residenza, quantomeno nel lungo periodo scolastico, senza individuare idonee compensazioni». Tirando le somme, «il trasferimento della donna coi tre figli potrebbe configurare una violazione del diritto alla bigenitorialità», chiosano i magistrati. ... Vedi altroVedi meno
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FOTO DEL PROFILO WHATSAPP OFFENSIVA: LEGITTIMO PARLARE DI DIFFAMAZIONE
Confermata la condanna di un uomo, finito sotto processo per i comportamenti tenuti, nella realtà e online, nei confronti dell’ex compagna.
Indiscutibile il reato di stalking secondo i Giudici, i quali sottolineano anche la gravità della diffusione su WhatsApp di una foto mirata ad offendere la donna.
Cass. pen., sez. V, ud. 23 gennaio 2024 (dep. 24 aprile 2024), n. 17141
Basta una foto offensiva impostata come profilo personale di WhatsApp per subire una condanna per diffamazione: l’uomo è colpevole di atti persecutori e di diffamazione, reati commessi ai danni dell’ex compagna.
Fondata, secondo i giudici, la tesi accusatoria, secondo cui l’uomo, da un lato, «ha cagionato alla persona offesa, con reiterate ingiurie e minacce ed altre condotte offensive, un grave e perdurante stato d’ansia, e ha ingenerato nella medesima persona il fondato timore per la propria incolumità personale, costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita» e, dall’altro, «ne ha offeso l’onore e la reputazione della persona offesa, divulgando una fotografia che la raffigurava», accompagnata da una frase offensiva.
Condanna confermata anche dalla Cassazione.
Per quanto riguarda la diffamazione, poi, i magistrati ritengono inverosimile la versione dell’uomo, il quale ha sostenuto di avere semplicemente compiuto un errore nell’impostare la foto incriminata come quella del proprio profilo su WhatsApp, e aggiungono che «la rimozione della foto non può privare di penale rilevanza il fatto e l’offesa già arrecata alla vittima».
I Giudici ricordano che «il reato di diffamazione si configura quando il messaggio può essere letto da più persone, anche se tra di esse vi è la persona offesa» e precisano che nella vicenda oggetto del processo «risulta evidente la divulgazione del messaggio offensivo, essendo il profilo WhatsApp dell’uomo accessibile quantomeno a tutti gli utenti del social network il cui contatto era inserito nella sua rubrica del telefono». ... Vedi altroVedi meno
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I MODIGLIONI DEI BALCONI SONO PARTE CONDOMINIALE SE SVOLGONO UNA FUNZIONE ESTETICA PER L'INTERO STABILE.
I balconi del condominio non sono necessariamente parti comuni: lo sono, specialmente i modiglioni e i rivestimenti, se svolgono in concreto una funzione per il palazzo, ad esempio contribuendo al suo decoro architettonico.
Trib. Torino, sez. VIII, sent., 1 marzo 2024, n. 1360
Una società condomina impugnava una delibera assembleare del proprio palazzo chiedendo la dichiarazione di annullabilità in merito alla decisione di intraprendere dei lavori di rifacimento dei balconi dello stabile.
L'assemblea sarebbe stata invalida in quanto questa avrebbe deliberato sul rifacimento dei modiglioni dei balconi i quali, parti private, non avrebbero potuto essere oggetto di decisioni del condominio.
Ai sensi dell'art. 1117 c.c., infatti, i modiglioni non sarebbero stati annoverati tra le parti comuni e quindi l'assemblea non avrebbe avuto alcuna possibilità di decidere sul rifacimento degli stessi.
Si costituiva in giudizio il Condominio, negando le ragioni dell'attrice e insistendo per la validità della delibera assunta.
Con la sentenza n. 1360 del 1° marzo 2024, il Tribunale di Torino rigettava la domanda attorea.
Dalle risultanze istruttorie, infatti, era risultato che i modiglioni in questione, lungi dall'essere parti meramente strutturali, svolgevano anche una funzione decorativa nella facciata condominiale, contribuendo al decoro architettonico dello stabile. Secondo la Cassazione, infatti, i rivestimenti dei balconi devono essere considerati parti condominiali se «svolgono in svolgono in concreto una prevalente, e perciò essenziale, funzione estetica per l'edificio, divenendo così elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata e contribuendo a renderlo esteticamente gradevole» (si veda Cass. n. 10848/2020). ... Vedi altroVedi meno
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ZTL: PIU' VIOLAZIONI UNA SOLA MULTA
Le violazioni, anche in tempi diversi, della medesima norma relativa alla circolazione di un veicolo non avente i requisiti amministrativi richiesti dalla legge devono essere considerate come un'unica infrazione.
Cass. civ., sez. II, ord., 17 luglio 2024, n. 19680
La vicenda in esame origina dall'opposizione presentata con separati ricorsi da un'automobilista avverso 39 verbali di violazione dell'art. 7, commi 9 e 14, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, notificati in due tranches, nonché avverso ulteriori 19 verbali di violazione delle medesime norme, di nuovo notificati in due tranches, elevati dalla Polizia Municipale all'opponente per aver circolato nella zona a traffico limitato sprovvista di autorizzazione.
La donna deduceva di essere incorsa in errore incolpevole, avendo la convinzione di essere ancora titolare del permesso di circolare nella zona a traffico limitato, non avendo l'amministrazione comunale inviatole alcuna comunicazione a distanza di circa due anni dal cambio di residenza, né avrebbe mai irrogato e notificato alcuna sanzione amministrativa prima di quelle oggetto di impugnazione.
Sia in primo che in secondo grado, i giudici, in parziale accoglimento dei ricorsi, annullavano tutti i verbali tranne uno.
Ricorre in Cassazione il Comune, il quale contesta che, pur avendo il giudice accertato che si tratta di una pluralità di condotte, «ne ha erroneamente ed illogicamente dedotto la riconducibilità dell'aspetto colposo delle violazioni alla sola prima infrazione commessa in forza di un'improbabile unificazione delle singole condotte»; invece, la configurazione di tali illeciti come un tutt'uno presupporrebbe il loro inquadramento nella categoria del concorso formale, tuttavia espressamente escluso per le violazioni alla disciplina in tema di zona traffico limitato ed aree pedonali dall'art. 198, comma 2, CdS.
II motivo è infondato.
La Corte, infatti, afferma che nel caso di specie le trasgressioni compiute dall'automobilista non integrano un'ipotesi di concorso formale, il quale richiede l'unicità dell'azione (od omissione) produttiva della pluralità di violazioni (ex multis: Cass. n. 10890/2018): le violazioni, anche in tempi diversi, della medesima norma relativa alla circolazione di un veicolo non avente i requisiti amministrativi richiesti dalla legge devono, semmai, essere considerate come un'unica infrazione in quanto reiterazioni del medesimo illecito amministrativo (reiterazione specifica), ai sensi della legge vigente ratione temporis, «stante la sostanziale omogeneità degli illeciti perpetrati, e avuto riguardo alla natura dei fatti che le costituiscono e alle modalità della condotta».
Il Collegio, quindi, conferma la soluzione adottata dal giudice di secondo grado, laddove ritiene valido ed efficace un unico verbale di contestazione: non si tratta, infatti, di escludere l'elemento soggettivo del trasgressore con riferimento alle violazioni successive, quanto piuttosto, «di elidere la valutazione delle violazioni amministrative successive alla prima» (Cass. n. 2965/2016).
Il ricorso, quindi, viene rigettato. ... Vedi altroVedi meno
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PERMESSI SINDACALI: L'ABUSO COMPORTA IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE
Respinte definitivamente le obiezioni sollevate da un oramai ex dipendente di un’azienda tessile.
Evidente, secondo i Giudici, la gravità della condotta da lui tenuta, provata grazie all’intervento di un investigatore privato.
Cass. civ, sez. lav., ord., 26 luglio 2024, n. 20972ù
Legittimo il licenziamento del dipendente che ha usufruito di permessi retribuiti per attività sindacale ma, in realtà, ha impiegato quei giorni di assenza per questioni esclusivamente personali.
E, aggiungono i Giudici, legittimo l'operato dell'azienda, che ha provveduto a far pedinare il dipendente al fine di provare l'irregolarità della condotta.
A finire nel mirino è un dipendente che, in qualità di sindacalista, ha potuto usufruire di alcuni permessi retribuiti, necessari, a suo dire, per svolgere attività sindacale.
Tutto in regola, almeno sulla carta, perché, invece, un investigatore privato pedina, su incarico dell'azienda tessile, il lavoratore e accerta che quest'ultimo ha utilizzato per questioni personali le giornate di assenza – regolarmente retribuite – concessegli dal datore di lavoro per impegni legati all'opera del sindacato. Questa scoperta è sufficiente, secondo l'azienda, per licenziare il dipendente.
E questa posizione è condivisa anche dai giudici di merito, i quali ritengono, sia in primo che in secondo grado, grave la condotta tenuta dal lavoratore. Su questo fronte viene fatta chiarezza in appello ... Vedi altroVedi meno
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