Licenziato dipendente per accesso abusivo ai dati dei clienti

Licenziato dipendente per accesso abusivo ai dati dei clienti

Licenziato il dipendente per accesso abusivo ai dati dei clienti di una banca. E’ una grave violazione della Privacy.

È legittimo il licenziamento disciplinare del dipendente che accede abusivamente per motivi extra-lavorativi ai dati di decine di clienti della banca.

Cass. civ., sez. lav., ord., 25 febbraio 2025, n. 4945

I fatti

Un dipendente di banca era stato licenziato per giusta causa sulla base della contestazione disciplinare con cui gli era stato addebitato l’accesso abusivo alle schede clienti per motivi extralavorativi, con grave violazione della privacy.

A seguito di opposizione al licenziamento del lavoratore dinanzi ai giudici di merito, si ordinava la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e si condannava al pagamento dell’indennità risarcitoria l’istituto di credito. Quest’ultimo presentava, allora, ricorso per cassazione affidato a sei motivi.

La banca contestava la decisione per avere la Corte territoriale ritenuto che la mancata deduzione di danni conseguenziali all’illecita consultazione dei rapporti bancari di decine di clienti avrebbe escluso la giusta causa di licenziamento.

Licenziato dipendente per accesso abusivo ai dati dei clienti

La decisione della Cassazione

Sul punto, la Cassazione ha affermato che «l’assenza di effettive conseguenze pregiudizievoli per il datore di lavoro o per terzi, ovvero di concreti vantaggi a favore proprio del lavoratore o di terzi, così come l’eventuale comportamento successivo volto ad eliderne gli effetti dannosi, non valgono di per sé ad escludere la rilevanza disciplinare del fatto, potendo piuttosto concorrere, unitamente ad ogni altro fattore oggettivo e soggettivo palesato dal caso concreto, nella complessa valutazione giudiziale circa l’idoneità della condotta a giustificare la sanzione espulsiva.»

In quest’ottica è stato, inoltre, precisato che in tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non si riferisce alla tenuità del danno patrimoniale per il datore di lavoro, «dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro» (Cass. n. 23318/2024; Cass. n. 8816/2017; Cass. n. 19674/2014).

Per la Corte, dunque, la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dei consolidati principi di legittimità. Gli stessi giudici di secondo grado – ha continuato la Cassazione – avevano, peraltro, evidenziato la rilevanza e gravità di quelle condotte, laddove avevano richiamato la severità ed il rigore con cui il Garante della privacy ha trattato la materia.

Alla luce di tali precisazioni, la Suprema Corte, ha accolto il ricorso cassando la pronuncia con rinvio per la rivalutazione di quelle condotte secondo il parametro di gravità desumibile dall’art. 2119 c.c.

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Avv. Francesco Pavan