Velo Islamico e simboli religiosi, quando si può vietarli sul luogo di lavoro

Velo Islamico e simboli religiosi, quando si può vietarli sul luogo di lavoro
L’art. 2 §.2 Lett. b Direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sul credo, derivante da una norma interna di un’impresa che vieta ai lavoratori di indossare qualsiasi segno visibile di politica, convinzioni filosofiche o religiose sul luogo di lavoro, può essere, a determinate condizioni, giustificata dall’esigenza e dall’intenzione del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei clienti o degli utenti nei limiti di quanto strettamente necessario in una democrazia.
CORTE DI GIUSTIZIA UE, GRANDE SEZIONE, 15 LUGLIO 2021, N. C-804/18 E C-341/19 (ECLI: EU:C:2021:594)

I Fatti

È quanto deciso dalla EU:C:2021:594, C-804/18 del 15 luglio che ha riunito due ricorsi presso la Corte Costituzionale tedesca promossi da due lavoratrici (dipendenti rispettivamente di una catena di asili e di una di drugstore), cui era stato negato il diritto di indossare il velo islamico, con cui hanno impugnato il dress code del datore imposto per un’esigenza di rispettare una politica di neutralità religiosa, politica e filosofica: erano state sospese dal lavoro per non averlo ottemperato.

La decisione della Corte di Giustizia

In primis la CGUE rileva che per valutare una discriminazione, diretta od indiretta, bisogna paragonare categorie che si trovano in situazioni identiche od equiparabili, ma ricevono un trattamento differente.
Alcune religioni prevedono d’indossare simboli di grosse dimensioni come un copricapo (il turbante dei Sikh, il kippah degli ebrei, il velo islamico etc.), sì che se fossero vietati i fedeli di questi culti lecitamente potrebbero invocare una discriminazione fondata sulla religione, convenzioni filosofiche etc.
Inoltre altre categorie, come gli agnostici, non hanno un abbigliamento specifico per manifestare le loro convinzioni, perciò potrebbero essere avvantaggiati rispetto agli altri culti o convinzioni: onde evitare discriminazioni questo divieto deve essere generale e totale (vietate ogni manifestazione ed ostentazione di queste idee e quindi indossare ogni simbolo di culto di qualsiasi forma, dimensione etc.) per non compromettere il fine perseguito.
Nella fattispecie i datori rispettivamente avevano tolto ogni simbolo, manifesto, rinvio ad ogni opinione religiosa, politica e filosofica dal luogo di lavoro (drugstore) ed ugualmente sospeso una lavoratrice che indossava una catenina con una croce.
Questo dress code aveva lo scopo di prevenire conflitti sociali all’interno dell’impresa in particolare tenuto conto dell’esistenza di tensioni verificatesi in passato riconducibili a dette convinzioni.
Nel bilanciare la libertà d’impresa (art.16 Carta di Nizza) con quella religiosa (art.10 Carta di Nizza) la CGUE riconosce che l’esigenza di adottare una politica interna di neutralità giustifichi il divieto d’indossare detti simboli sul luogo di lavoro.
Alla luce di ciò, per la CGUE, questa restrizione delle libertà del lavoratore «può essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei clienti o degli utenti, a condizione che, in primo luogo, tale politica risponda ad un’esigenza reale di detto datore di lavoro, circostanza che spetta a quest’ultimo dimostrare prendendo in considerazione segnatamente le aspettative legittime di detti clienti o utenti nonché le conseguenze sfavorevoli che egli subirebbe in assenza di una tale politica, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui queste ultime si iscrivono; in secondo luogo, che detta differenza di trattamento sia idonea ad assicurare la corretta applicazione di tale politica di neutralità, il che presuppone che tale politica sia perseguita in modo coerente e sistematico e, in terzo luogo, che detto divieto si limiti allo stretto necessario tenuto conto della portata e della gravità effettive delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un divieto siffatto»
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Avv. Francesco Pavan
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