Non viola la privacy del lavoratore una nota interna dell’Azienda relativa alla sua salute

Per i Giudici, come già per il Garante Privacy, è fondamentale constatare che la notizia della patologia del dipendente era stata già palesata nell’ambiente di lavoro, e che la nota era una segnalazione di carattere interno mirata alla tutela della salute del prestatore di lavoro e degli utenti del servizio.

(Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza n. 16560/20; depositata il 31 luglio)

I Fatti

A far scoppiare il caso è una nota interna con cui viene evidenziata «l’opportunità della sottoposizione» di un dipendente «a una visita straordinaria presso il medico competente del Servizio di prevenzione e protezione di medicina del lavoro per problemi di iperglicemia» e per la conseguente terapia.

La comunicazione provoca l’irritazione del lavoratore che si rivolge al Garante per la protezione dei dati personali per «lamentare l’illecita diffusione, a opera del datore di lavoro, di taluni dati inerenti le proprie condizioni di salute».

Tale azione si rivela però inutile: per il Garante la condotta dell’azienda ospedaliera è regolare.

E sulla stessa linea si attesta anche il Tribunale.  Per i Giudici, difatti, bisogna tener presente che «la notizia della patologia era stata già palesata nell’ambiente di lavoro» poiché era stato lo stesso dipendente a renderne partecipi alcuni dei propri colleghi.

Peraltro, la nota ritenuta illegittima dal lavoratore «non era una comunicazione destinata alla diffusione, bensì una segnalazione di carattere interno», basata sulla «esigenza superiore di tutela della salute del prestatore di lavoro e degli utenti del servizio».

Ciò significa, secondo i Giudici del Tribunale, che «la tutela della riservatezza doveva necessariamente affievolire in presenza di dati già divulgati dal lavoratore, essendo la condotta di pubblica ostensione di dati sensibili una forma di consenso implicito al loro trattamento».

Il lavoratore ricorre in Cassazione per censurare la valutazione del Garante e la decisione del Tribunale, ponendo in evidenza, tra l’altro, che «la normativa sulla riservatezza e la giurisprudenza in materia non distinguono una comunicazione interna da una comunicazione esterna», e che «il dato diffuso atteneva alla sfera di salute e a dati sensibili, la cui diffusione si sarebbe potuta ritenere lecita solo dinanzi a una norma di legge autorizzativa, e unicamente se ad essa avesse dato corso un soggetto abilitato».

Allo stesso tempo, il lavoratore osserva che la normativa «rende acquisibili i dati personali, in difetto di consenso, solo in caso di emergenza sanitaria o di igiene pubblica, e non anche in relazione a vicende come quella in esame», e poi pone in evidenza la violazione compiuta, a suo dire, con «l’avvenuta specificazione della patologia e delle terapie», assolutamente non giustificata dal fatto di «averne parlato con i propri colleghi di lavoro».

In ultimo, poi, il lavoratore sostiene che «non si sarebbe potuta giustificare la condotta dell’azienda neppure a fronte dell’argomentazione del Garante basata sull’articolo 5 dello Statuto dei lavoratori, che consente al datore di lavoro di sottoporre a visita il lavoratore» ma «non rende necessario, né pertinente, specificare le malattie del dipendente e le terapie cui egli abbia a sottoporsi, o la trasmissione a uffici o a soggetti diversi dal medico competente».

La decisione della Cassazione

Per i Giudici della Cassazione, difatti, è corretta e condivisibile la valutazione compiuta in Tribunale, laddove si è osservato che, checché ne dica il lavoratore, ci si trova di fronte a «una semplice comunicazione interna con fini di tutela della salute dello stesso lavoratore e di terze persone, in un ambito in cui, peraltro, le informazioni sensibili erano state già ampiamente diffuse dallo stesso soggetto interessato».

Ad avere un peso, ovviamente, anche il fatto che «il Garante aveva a sua volta inteso la nota come una richiesta interna, inoltrata ai superiori gerarchici», finalizzata alla previsione fissata dall’articolo 5 dello Statuto dei lavoratori.

Tirando le somme, «la diffusione del dato» relativo allo stato di salute del lavoratore, è da ritenere «non esorbitante e anzi doverosa in rapporto al fine di sollecitare la sottoposizione a visita del lavoratore, anche nel suo interesse», concludono i giudici della Cassazione.

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Avv. Francesco Pavan