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Patti pre-matrimoniali

La Corte di Cassazione torna sul binomio autonomia contrattuale-famiglia, riconoscendo piena validità agli accordi economico-patrimoniali stipulati in bonis tra i coniugi, aventi ad oggetto reciproche concessioni di dare-avere, condizionati ad una futura ed eventuale crisi familiare.

Cass. civ., sez. I, ord., 21 luglio 2025, n. 20415

Sono validi ed efficaci gli accordi stipulati tra i nubendi, o tra i coniugi, volti a regolamentare i rapporti patrimoniali interni, in caso di futura ed incerta crisi coniugale, per mezzo di reciproche ed eque concessioni, in quanto qualificabili come contratti atipici sottoposti a condizione sospensiva lecita.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha riconosciuto la piena validità di una scrittura privata sottoscritta tra i coniugi, per mezzo della quale si prevedeva che, in caso di separazione, l'uno si obbligava al pagamento di una somma di denaro a beneficio dell'altro che, a sua volta, rinunciava, in suo favore, ad alcuni beni mobili.

Parte attrice intestava il Tribunale di Mantova domandando l'accertamento della nullità, per contrarietà all'ordine pubblico e a norme imperative quali gli artt. 143,160 c.c., della scrittura privata stipulata, in costanza di matrimonio, con l'allora coniuge.

Il citato accordo regolava aspetti patrimoniali interni, nell'ipotesi di un'incerta e futura crisi coniugale e, in particolare, riconosceva il ruolo attivo della consorte nella formazione, e nel mantenimento, del benessere economico familiare e nel pagamento del mutuo per la ristrutturazione dell'immobile a lui intestato.
I mutuali interessi delle parti, come sigillati nella scrittura privata contestata, si concretizzavano nella dichiarata previsione dell'insorgere automatico di un debito a carico del marito, nell'ipotesi di separazione personale, e di un'espressa rinuncia a determinati beni mobili da parte della moglie.

Il Giudice del primo grado respingeva la menzionata domanda ed accoglieva quanto richiesto dalla costituita coniuge in via riconvenzionale, condannando, contestualmente, il marito al pagamento della somma, a titolo di obbligazione restitutoria, indicata all'interno della stipulata scrittura privata.

L'adita Corte d'appello confermava la decisione del Tribunale, accertando la piena validità della scrittura privata e, quindi, degli accordi patrimoniali ivi contenuti.

La Cassazione respingeva il ricorso, confermando la pronuncia della Corte territoriale che aveva riconosciuto la validità della contestata scrittura privata, in quanto contratto atipico con condizione sospensiva lecita.

In sede di legittimità, l'accordo è stato riconfermato come valido, in quanto lecito ed equo e, nondimeno, rispettoso dei necessari limiti da mantenere nei confronti dei diritti indisponibili; l'importo previsto a titolo di obbligazione restitutoria, non poteva configurarsi come una somma “una tantum”, che avrebbe, di talché, interferito con la disciplina dell'assegno divorzile (indisponibile), sulla considerazione che non vi era alcuna espressa dicitura, né rinuncia esplicita all'assegno.
Parimenti, non risultava integrare adempimento di un'obbligazione naturale, stante l'inesistenza di divieti che inibiscano i coniugi nella riconoscenza di insorti rapporti di dare-avere.
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Patti pre-matrimoniali

La Corte di Cassazione torna sul binomio autonomia contrattuale-famiglia, riconoscendo piena validità agli accordi economico-patrimoniali stipulati in bonis tra i coniugi, aventi ad oggetto reciproche concessioni di dare-avere, condizionati ad una futura ed eventuale crisi familiare.

Cass. civ., sez. I, ord., 21 luglio 2025, n. 20415

Sono validi ed efficaci gli accordi stipulati tra i nubendi, o tra i coniugi, volti a regolamentare i rapporti patrimoniali interni, in caso di futura ed incerta crisi coniugale, per mezzo di reciproche ed eque concessioni, in quanto qualificabili come contratti atipici sottoposti a condizione sospensiva lecita. 
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha riconosciuto la piena validità di una scrittura privata sottoscritta tra i coniugi, per mezzo della quale si prevedeva che, in caso di separazione, luno si obbligava al pagamento di una somma di denaro a beneficio dellaltro che, a sua volta, rinunciava, in suo favore, ad alcuni beni mobili.

Parte attrice intestava il Tribunale di Mantova domandando laccertamento della nullità, per contrarietà allordine pubblico e a norme imperative quali gli artt. 143,160 c.c., della scrittura privata stipulata, in costanza di matrimonio, con lallora coniuge.

Il citato accordo regolava aspetti patrimoniali interni, nellipotesi di unincerta e futura crisi coniugale e, in particolare, riconosceva il ruolo attivo della consorte nella formazione, e nel mantenimento, del benessere economico familiare e nel pagamento del mutuo per la ristrutturazione dellimmobile a lui intestato. 
I mutuali interessi delle parti, come sigillati nella scrittura privata contestata, si concretizzavano nella dichiarata previsione dellinsorgere automatico di un debito a carico del marito, nellipotesi di separazione personale, e di unespressa rinuncia a determinati beni mobili da parte della moglie.

Il Giudice del primo grado respingeva la menzionata domanda ed accoglieva quanto richiesto dalla costituita coniuge in via riconvenzionale, condannando, contestualmente, il marito al pagamento della somma, a titolo di obbligazione restitutoria, indicata allinterno della stipulata scrittura privata.

Ladita Corte dappello confermava la decisione del Tribunale, accertando la piena validità della scrittura privata e, quindi, degli accordi patrimoniali ivi contenuti.

La Cassazione respingeva il ricorso, confermando la pronuncia della Corte territoriale che aveva riconosciuto la validità della contestata scrittura privata, in quanto contratto atipico con condizione sospensiva lecita.

In sede di legittimità, laccordo è stato riconfermato come valido, in quanto lecito ed equo e, nondimeno, rispettoso dei necessari limiti da mantenere nei confronti dei diritti indisponibili; limporto previsto a titolo di obbligazione restitutoria, non poteva configurarsi come una somma “una tantum”, che avrebbe, di talché, interferito con la disciplina dellassegno divorzile (indisponibile), sulla considerazione che non vi era alcuna espressa dicitura, né rinuncia esplicita allassegno. 
Parimenti, non risultava integrare adempimento di unobbligazione naturale, stante linesistenza di divieti che inibiscano i coniugi nella riconoscenza di insorti rapporti di dare-avere.

Alla morte della zia, i nipoti possono essere eredi diretti?

Il decesso di una zia che non aveva nè marito, nè genitori e nè figli, dà diritto a due fratelli all’eredità della zia? E quindi a partecipare alle pratiche di successione?

Non avendo lasciato la zia testamento, si apre la sua successione legittima; l'apertura della successione comporta che i soggetti individuati dalla legge (c.d. chiamati all'eredità) possano decidere se accettare o rinunciare.

Nel caso di specie il soggetto chiamato all'eredità – non avendo la zia un marito, dei genitori e mai avuto figli – risulterebbe ai sensi dell'art. 570 c.c. il fratello che, però, le è premorto.

Ai sensi degli articoli 467,468 e 469 c.c. scatta, in questo caso, il fenomeno della rappresentazione in forza del quale quando un soggetto «non può o non vuole accettare l'eredità» (ed il fratello materialmente «non può» accettare, in quanto è morto prima della sorella), al posto del soggetto premorto subentrano i suoi discendenti (e non la moglie).

Chiamati all'eredità della zia sono, quindi, esclusivamente i due nipoti, in quanto sono subentrati nella stessa identica posizione che rispetto alla zia aveva il fratello; i nipoti potranno, quindi, decidere se accettare o rinunciare all'eredità della zia, nello stesso modo in cui avrebbe potuto deciderlo il proprio genitore ove fosse stato vivo.

Non rileva che i due nipoti abbiano rinunciato all'eredità del padre, in quanto essi sono eredi diretti della zia.
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Alla morte della zia, i nipoti possono essere eredi diretti?

Il decesso di una zia che non aveva nè marito, nè genitori e nè figli, dà diritto a due fratelli all’eredità della zia? E quindi a partecipare alle pratiche di successione?

Non avendo lasciato la zia testamento, si apre la sua successione legittima; lapertura della successione comporta che i soggetti individuati dalla legge (c.d. chiamati alleredità) possano decidere se accettare o rinunciare.

Nel caso di specie il soggetto chiamato alleredità – non avendo la zia un marito, dei genitori e mai avuto figli – risulterebbe ai sensi dellart. 570 c.c. il fratello che, però, le è premorto.

Ai sensi degli articoli 467,468 e 469 c.c. scatta, in questo caso, il fenomeno della rappresentazione in forza del quale quando un soggetto «non può o non vuole accettare leredità» (ed il fratello materialmente «non può» accettare, in quanto è morto prima della sorella), al posto del soggetto premorto subentrano i suoi discendenti (e non la moglie).

Chiamati alleredità della zia sono, quindi, esclusivamente i due nipoti, in quanto sono subentrati nella stessa identica posizione che rispetto alla zia aveva il fratello; i nipoti potranno, quindi, decidere se accettare o rinunciare alleredità della zia, nello stesso modo in cui avrebbe potuto deciderlo il proprio genitore ove fosse stato vivo.

Non rileva che i due nipoti abbiano rinunciato alleredità del padre, in quanto essi sono eredi diretti della zia.

Pensione per animali: il gestore non risponde in caso di morte imprevedibile del cane

Nel rapporto tra proprietario e gestore di una pensione per animali, qualificato come deposito atipico ex art. 1766 c.c., il depositario risponde solo se non dimostra di aver adottato la diligenza del buon padre di famiglia e che il danno non sia dovuto a causa a sé non imputabile, restando esclusa la responsabilità contrattuale quando l’evento, come la morte dell’animale per patologia improvvisa, risulti imprevedibile e inevitabile.

Cass. civ., sez. III, ord., 15 luglio 2025, n. 19497

La Corte di Cassazione, con l'ordinanza in commento, è intervenuta sulla responsabilità civile nella custodia di animali in ambito contrattuale, ribadendo che il rapporto tra proprietario e gestore di una pensione per animali si configura come contratto di deposito atipico ai sensi dell'art. 1766 c.c. e ss.

Tale ricostruzione comporta che il depositario sia tenuto a osservare la diligenza del buon padre di famiglia nell'adempimento delle obbligazioni assunte e che, in caso di danno, su di lui gravi l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cure necessarie e che l'inadempimento sia riconducibile a una causa a sé non imputabile, secondo quanto previsto dall'art. 1218 c.c.

La Suprema Corte ha valorizzato l'orientamento giurisprudenziale che considera gli animali d'affezione oggetto di specifiche obbligazioni di custodia, richiamando i principi già affermati anche per le strutture ricettive che accolgono animali.
Viene così ribadito che la responsabilità del depositario non si configura qualora risulti provato che tutte le cautele e le attenzioni richieste sono state adottate e che l'evento dannoso sia indipendente da qualsiasi omissione a lui imputabile.

Nel caso di specie, i Giudici hanno riconosciuto che il decesso del cane, affidato a una pensione, era stato causato da una torsione gastroplenica completa, evento patologico improvviso e rapido contro cui «nulla poteva evitare la convenuta», escludendo quindi ogni profilo di responsabilità contrattuale e dichiarando, di conseguenza, inammissibile il ricorso.
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Pensione per animali: il gestore non risponde in caso di morte imprevedibile del cane

Nel rapporto tra proprietario e gestore di una pensione per animali, qualificato come deposito atipico ex art. 1766 c.c., il depositario risponde solo se non dimostra di aver adottato la diligenza del buon padre di famiglia e che il danno non sia dovuto a causa a sé non imputabile, restando esclusa la responsabilità contrattuale quando l’evento, come la morte dell’animale per patologia improvvisa, risulti imprevedibile e inevitabile.

Cass. civ., sez. III, ord., 15 luglio 2025, n. 19497

La Corte di Cassazione, con lordinanza in commento, è intervenuta sulla responsabilità civile nella custodia di animali in ambito contrattuale, ribadendo che il rapporto tra proprietario e gestore di una pensione per animali si configura come contratto di deposito atipico ai sensi dellart. 1766 c.c. e ss.

Tale ricostruzione comporta che il depositario sia tenuto a osservare la diligenza del buon padre di famiglia nelladempimento delle obbligazioni assunte e che, in caso di danno, su di lui gravi lonere di dimostrare di aver adottato tutte le cure necessarie e che linadempimento sia riconducibile a una causa a sé non imputabile, secondo quanto previsto dallart. 1218 c.c.

La Suprema Corte ha valorizzato lorientamento giurisprudenziale che considera gli animali daffezione oggetto di specifiche obbligazioni di custodia, richiamando i principi già affermati anche per le strutture ricettive che accolgono animali. 
Viene così ribadito che la responsabilità del depositario non si configura qualora risulti provato che tutte le cautele e le attenzioni richieste sono state adottate e che levento dannoso sia indipendente da qualsiasi omissione a lui imputabile.

Nel caso di specie, i Giudici hanno riconosciuto che il decesso del cane, affidato a una pensione, era stato causato da una torsione gastroplenica completa, evento patologico improvviso e rapido contro cui «nulla poteva evitare la convenuta», escludendo quindi ogni profilo di responsabilità contrattuale e dichiarando, di conseguenza, inammissibile il ricorso.

Riprese video sugli abusi edilizi del vicino: è stalking

Condannate per stalking tre persone per aver fotografato e filmato più volte, lungo un arco temporale di due anni, il vicino di casa con l’obiettivo di certificare la realizzazione di abusi edilizi.

Cass. pen., sez. V, ud. 27 giugno 2025 (dep. 31 luglio 2025), n. 28146

Per i giudici di merito non ci sono dubbi: a fronte di un quadro probatorio chiarissimo, è configurabile lo stalking.
Debole infatti, la tesi difensiva circa lo scopo delle riprese: certificare il compimento di opere edilizie abusive.

Con ricorso per cassazione l’avvocato sottolinea che i suoi tre clienti «volevano semplicemente evitare che il vicino continuasse a realizzare opere abusive che insistevano sul muro di loro proprietà».
«Le riprese» incriminate, e catalogate come stalking, «sono state effettuate» solo «per dimostrare ai vigili urbani gli abusi edilizi» compiuti dal vicino.
«Le minacce erano finalizzate a far cessare un comportamento palesemente criminoso posto in essere dal vicino», accusato a sua volta, in un altro procedimento, «per il reato di abuso d’atti di ufficio e di abuso edilizio».

Per i magistrati di Cassazione la linea difensiva «tende a far leva sugli abusi edilizi che aveva posto in essere la persona offesa» e punta così a «ricondurre le condotte delle tre persone sotto processo all’esercizio di un diritto, quello di proprietà, facendo generico riferimento all’esigenza di evitare che il vicino di casa – la persona offesa – continuasse a realizzare opere abusive sul confine prediale ovvero sul muro di proprietà».
In tale ottica dunque, «difetterebbe», annotano i giudici, «il male ingiusto che deve sussistere affinché possa ritenersi integrata la minaccia.

Tuttavia, prescindendo dalla circostanza degli abusi edilizi posti in essere dalla persona offesa e dalle relative pretese delle tre persone sotto processo, pretese in ogni caso tutelabili attraverso i rimedi che offre l’ordinamento, «le minacce e le ingiurie» verso il vicino e «l’attività di ripresa e fotografia delle condotte poste in essere dal vicino» rappresentano «atti persecutori per contenuti, portata e reiterazione nel tempo – due anni –, avendo, esse, tra l’altro, finito per costringere la persona offesa a mutare le sue abitudini di vita», costringendola «a vivere in un costante stato di ansia e timore» per sé e per i figli.

Inoltre, i magistrati di Cassazione, condividendo le argomentazioni adottate in Appello, chiariscono che «anche l’eventuale realizzazione illecita di opere edilizie da parte della persona offesa non avrebbe potuto giustificare le intollerabili condotte poste in essere dalle tre persone sotto processo, che hanno scientemente e reiteratamente ingiuriato e minacciato» il vicino, «con frasi involgenti anche terze persone estranee alla contesa» e «ingenerando in lui», come detto, «un grave stato d’ansia, che l’induceva a modificare le abitudini di vita anche dei propri familiari».
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Riprese video sugli abusi edilizi del vicino: è stalking

Condannate per stalking tre persone per aver fotografato e filmato più volte, lungo un arco temporale di due anni, il vicino di casa con l’obiettivo di certificare la realizzazione di abusi edilizi.

Cass. pen., sez. V, ud. 27 giugno 2025 (dep. 31 luglio 2025), n. 28146

Per i giudici di merito non ci sono dubbi: a fronte di un quadro probatorio chiarissimo, è configurabile lo stalking. 
Debole infatti, la tesi difensiva circa lo scopo delle riprese: certificare il compimento di opere edilizie abusive.

Con ricorso per cassazione l’avvocato sottolinea che i suoi tre clienti «volevano semplicemente evitare che il vicino continuasse a realizzare opere abusive che insistevano sul muro di loro proprietà». 
 «Le riprese» incriminate, e catalogate come stalking, «sono state effettuate» solo «per dimostrare ai vigili urbani gli abusi edilizi» compiuti dal vicino.
«Le minacce erano finalizzate a far cessare un comportamento palesemente criminoso posto in essere dal vicino», accusato a sua volta, in un altro procedimento, «per il reato di abuso d’atti di ufficio e di abuso edilizio».
 
Per i magistrati di Cassazione la linea difensiva «tende a far leva sugli abusi edilizi che aveva posto in essere la persona offesa» e punta così a «ricondurre le condotte delle tre persone sotto processo all’esercizio di un diritto, quello di proprietà, facendo generico riferimento all’esigenza di evitare che il vicino di casa – la persona offesa – continuasse a realizzare opere abusive sul confine prediale ovvero sul muro di proprietà».
In tale ottica dunque, «difetterebbe», annotano i giudici, «il male ingiusto che deve sussistere affinché possa ritenersi integrata la minaccia. 

Tuttavia, prescindendo dalla circostanza degli abusi edilizi posti in essere dalla persona offesa e dalle relative pretese delle tre persone sotto processo, pretese in ogni caso tutelabili attraverso i rimedi che offre l’ordinamento, «le minacce e le ingiurie» verso il vicino e «l’attività di ripresa e fotografia delle condotte poste in essere dal vicino» rappresentano «atti persecutori per contenuti, portata e reiterazione nel tempo – due anni –, avendo, esse, tra l’altro, finito per costringere la persona offesa a mutare le sue abitudini di vita», costringendola «a vivere in un costante stato di ansia e timore» per sé e per i figli.

Inoltre, i magistrati di Cassazione, condividendo le argomentazioni adottate in Appello, chiariscono che «anche l’eventuale realizzazione illecita di opere edilizie da parte della persona offesa non avrebbe potuto giustificare le intollerabili condotte poste in essere dalle tre persone sotto processo, che hanno scientemente e reiteratamente ingiuriato e minacciato» il vicino, «con frasi involgenti anche terze persone estranee alla contesa» e «ingenerando in lui», come detto, «un grave stato d’ansia, che l’induceva a modificare le abitudini di vita anche dei propri familiari».

Requisiti per l’accesso alla NASpI: cosa si intende per "lavoro effettivo"?

Ai fini dell’accesso alla NASpI, il requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo comprende non solo la presenza fisica in servizio, ma anche tutte le giornate in cui il lavoratore mantiene il diritto a retribuzione e contribuzione.
Sono, invece, esclusi dal conteggio i periodi di sospensione legale del rapporto che impediscono le reciproche prestazioni.

Cass. civ., sez. lav., sent., 16 luglio 2025, n. 19630

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, è tornata a pronunciarsi sul requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo quale condizione per l'accesso alla NASpI secondo l'art. 3, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 22/2015, nella formulazione applicabile prima delle modifiche della l. n. 207/2024.

Il caso traeva origine dalla particolare situazione di un lavoratore il cui rapporto era rimasto formalmente attivo, ma che, nei dodici mesi antecedenti il licenziamento, si era visto impedire dal datore la prestazione lavorativa.
In primo grado era stato riconosciuto il diritto all'indennità, mentre in Appello tale diritto veniva negato, sulla base di una lettura restrittiva del requisito di «lavoro effettivo», circoscritto dalla Corte territoriale alla sola presenza fisica del lavoratore.

Avverso tale decisione, veniva adìta la Suprema Corte, la quale ha, invece, valorizzato una nozione estensiva di «lavoro effettivo» che non si esaurisce nella mera prestazione fisica, ma si estende a tutte le ipotesi in cui il rapporto resta giuridicamente attivo e il lavoratore conserva il diritto alla retribuzione e alla relativa contribuzione.

I Giudici hanno, inoltre, chiarito la differenza tra queste situazioni e le ipotesi di sospensione legale del rapporto, come maternità, malattia, congedi o cassa integrazione a zero ore, che “neutralizzano” il periodo ai fini del conteggio dei dodici mesi.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha, dunque, accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte d'Appello di Perugia, in diversa composizione, per un nuovo esame alla luce dei seguenti principi di diritto:

- «il requisito delle “trenta giornate di lavoro effettivo” risulta integrato - oltre che da giornate di ferie e/o di riposo retribuito - da ogni giornata che dia luogo al diritto del lavoratore alla retribuzione e alla relativa contribuzione»;

- «ai fini del computo dei “dodici mesi che precedono l'inizio del periodo di disoccupazione” si escludono (sono neutralizzati) i periodi di sospensione del rapporto di lavoro per cause tutelate dalla legge, impeditive delle reciproche prestazioni».
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Requisiti per l’accesso alla NASpI: cosa si intende per lavoro effettivo?

Ai fini dell’accesso alla NASpI, il requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo comprende non solo la presenza fisica in servizio, ma anche tutte le giornate in cui il lavoratore mantiene il diritto a retribuzione e contribuzione. 
Sono, invece, esclusi dal conteggio i periodi di sospensione legale del rapporto che impediscono le reciproche prestazioni.

Cass. civ., sez. lav., sent., 16 luglio 2025, n. 19630

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, è tornata a pronunciarsi sul requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo quale condizione per laccesso alla NASpI secondo lart. 3, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 22/2015, nella formulazione applicabile prima delle modifiche della l. n. 207/2024.

Il caso traeva origine dalla particolare situazione di un lavoratore il cui rapporto era rimasto formalmente attivo, ma che, nei dodici mesi antecedenti il licenziamento, si era visto impedire dal datore la prestazione lavorativa. 
In primo grado era stato riconosciuto il diritto allindennità, mentre in Appello tale diritto veniva negato, sulla base di una lettura restrittiva del requisito di «lavoro effettivo», circoscritto dalla Corte territoriale alla sola presenza fisica del lavoratore.

Avverso tale decisione, veniva adìta la Suprema Corte, la quale ha, invece, valorizzato una nozione estensiva di «lavoro effettivo» che non si esaurisce nella mera prestazione fisica, ma si estende a tutte le ipotesi in cui il rapporto resta giuridicamente attivo e il lavoratore conserva il diritto alla retribuzione e alla relativa contribuzione.

I Giudici hanno, inoltre, chiarito la differenza tra queste situazioni e le ipotesi di sospensione legale del rapporto, come maternità, malattia, congedi o cassa integrazione a zero ore, che “neutralizzano” il periodo ai fini del conteggio dei dodici mesi.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha, dunque, accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte dAppello di Perugia, in diversa composizione, per un nuovo esame alla luce dei seguenti principi di diritto:

 - «il requisito delle “trenta giornate di lavoro effettivo” risulta integrato - oltre che da giornate di ferie e/o di riposo retribuito - da ogni giornata che dia luogo al diritto del lavoratore alla retribuzione e alla relativa contribuzione»;

- «ai fini del computo dei “dodici mesi che precedono linizio del periodo di disoccupazione” si escludono (sono neutralizzati) i periodi di sospensione del rapporto di lavoro per cause tutelate dalla legge, impeditive delle reciproche prestazioni».

Quando si configura la violazione degli obblighi di assistenza familiare?

La norma incriminatrice di cui all'art. 570-bis c.p. si riferisce non solo all'assegno di mantenimento, ma, più in generale, agli obblighi di natura economica in materia di affido dei figli, che, con l'assegno, condividono la natura di mezzi di contribuzione al mantenimento, quindi anche alle spese straordinarie.

Cass. pen., sez. VI, ud. 1 luglio 2025 (dep. 16 luglio 2025), n. 26121

La sentenza in commento trae origine dal ricorso per cassazione proposto dalla parte civile, avverso la sentenza della Corte d'appello di Roma, la quale aveva assolto l'imputato dall'accusa di violazione degli obblighi di mantenimento verso i figli minori, ex art. 570-bis c.p., ritenendo che l'inadempimento fosse solo parziale e non sufficiente a integrare il reato.
La contestazione riguardava il mancato pagamento, dal marzo 2020, sia dell'assegno di mantenimento sia delle spese straordinarie per i figli, con versamenti effettuati solo in parte e in alcuni casi dalla madre dell'imputato.

Il Collegio, preliminarmente, sottolinea la rilevanza penale del mancato pagamento delle spese straordinarie nel delitto di cui all'art. 570-bis c.p., tracciando un collegamento diretto tra la disciplina civilistica e quella penale.
Nel richiamare la pacifica giurisprudenza, specifica che la violazione degli obblighi di mantenimento non si esaurisce nell'omesso pagamento dell'assegno periodico stabilito in sede civile, ma comprende anche le spese straordinarie previste dal titolo giudiziario o da un accordo tra i coniugi.
Tali spese sono destinate a soddisfare i bisogni ordinari dei figli, «certi nel loro costante e prevedibile ripetersi, anche lungo intervalli temporali, più o meno ampi, nonché le spese imprevedibili e rilevanti nel loro ammontare che risultino indispensabili per l'interesse dei figli» (Cass. pen., Sez. VI, n. 19715/2025).

La lettera dell'art. 570-bis c.p. infatti, «punisce il coniuge che si sottrae all'obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero viola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli», ricomprendendo espressamente anche gli obblighi economici diversi dall'assegno mensile, come appunto le spese straordinarie.
La loro funzione è infatti, distinta rispetto all'assegno di mantenimento: mentre quest'ultimo copre le esigenze ordinarie e prevedibili dei figli, le spese straordinarie riguardano contributi per spese imprevedibili e rilevanti, ma indispensabili nell'interesse dei figli (es. sanitarie, scolastiche, sportive, ecc.), oppure spese certe che si ripetono a intervalli discontinui.
L'obbligo di contribuzione a tali spese non è un duplicato del mantenimento ordinario, ma integra il dovere di garantire ai figli un tenore di vita adeguato alle risorse e alle condizioni della famiglia, come imposto dall'art. 147 c.c.

Infine, la Suprema Corte si concentra sulle conseguenze civili dell'inadempimento. Pur riconoscendo che la Corte di appello aveva assolto l'imputato per il carattere circoscritto e parziale degli inadempimenti, la Cassazione censura tale valutazione, osservando che la protrazione nel tempo e la reiterazione degli omessi pagamenti (inclusi quelli coperti da terzi, come la madre dell'imputato) escludono una valutazione di corretto adempimento complessivo.

In particolare, la sentenza richiama la distinzione tra incapacità oggettiva e colpa dell'obbligato: solo la persistente e incolpevole indisponibilità di mezzi, debitamente provata, può scriminare l'inadempimento.
La mera disoccupazione o difficoltà economica, se non adeguatamente documentate e non derivanti da cause indipendenti dalla volontà dell'obbligato, non escludono la responsabilità.

Il Collegio quindi, alla luce delle suddette valutazioni, ha annullato la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili, rinviando al giudice civile per la liquidazione dei danni e delle spese.
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Quando si configura la violazione degli obblighi di assistenza familiare?

La norma incriminatrice di cui allart. 570-bis  c.p. si riferisce non solo allassegno di mantenimento, ma, più in generale, agli obblighi di natura economica in materia di affido dei figli, che, con lassegno, condividono la natura di mezzi di contribuzione al mantenimento, quindi anche alle spese straordinarie.

Cass. pen., sez. VI, ud. 1 luglio 2025 (dep. 16 luglio 2025), n. 26121

La sentenza in commento trae origine dal ricorso per cassazione proposto dalla parte civile, avverso la sentenza della Corte dappello di Roma, la quale aveva assolto limputato dallaccusa di violazione degli obblighi di mantenimento verso i figli minori, ex art. 570-bis c.p., ritenendo che linadempimento fosse solo parziale e non sufficiente a integrare il reato.
La contestazione riguardava il mancato pagamento, dal marzo 2020, sia dellassegno di mantenimento sia delle spese straordinarie per i figli, con versamenti effettuati solo in parte e in alcuni casi dalla madre dellimputato.

Il Collegio, preliminarmente, sottolinea la rilevanza penale del mancato pagamento delle spese straordinarie nel delitto di cui allart. 570-bis c.p., tracciando un collegamento diretto tra la disciplina civilistica e quella penale. 
Nel richiamare la pacifica giurisprudenza, specifica che la violazione degli obblighi di mantenimento non si esaurisce nellomesso pagamento dellassegno periodico stabilito in sede civile, ma comprende anche le spese straordinarie previste dal titolo giudiziario o da un accordo tra i coniugi. 
Tali spese sono destinate a soddisfare i bisogni ordinari dei figli, «certi nel loro costante e prevedibile ripetersi, anche lungo intervalli temporali, più o meno ampi, nonché le spese imprevedibili e rilevanti nel loro ammontare che risultino indispensabili per linteresse dei figli» (Cass. pen., Sez. VI, n. 19715/2025).

La lettera dellart. 570-bis c.p. infatti, «punisce il coniuge che si sottrae allobbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero viola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli», ricomprendendo espressamente anche gli obblighi economici diversi dallassegno mensile, come appunto le spese straordinarie.
La loro funzione è infatti, distinta rispetto allassegno di mantenimento: mentre questultimo copre le esigenze ordinarie e prevedibili dei figli, le spese straordinarie riguardano contributi per spese imprevedibili e rilevanti, ma indispensabili nellinteresse dei figli (es. sanitarie, scolastiche, sportive, ecc.), oppure spese certe che si ripetono a intervalli discontinui. 
Lobbligo di contribuzione a tali spese non è un duplicato del mantenimento ordinario, ma integra il dovere di garantire ai figli un tenore di vita adeguato alle risorse e alle condizioni della famiglia, come imposto dallart. 147 c.c.

Infine, la Suprema Corte si concentra sulle conseguenze civili dellinadempimento. Pur riconoscendo che la Corte di appello aveva assolto limputato per il carattere circoscritto e parziale degli inadempimenti, la Cassazione censura tale valutazione, osservando che la protrazione nel tempo e la reiterazione degli omessi pagamenti (inclusi quelli coperti da terzi, come la madre dellimputato) escludono una valutazione di corretto adempimento complessivo.

In particolare, la sentenza richiama la distinzione tra incapacità oggettiva e colpa dellobbligato: solo la persistente e incolpevole indisponibilità di mezzi, debitamente provata, può scriminare linadempimento. 
La mera disoccupazione o difficoltà economica, se non adeguatamente documentate e non derivanti da cause indipendenti dalla volontà dellobbligato, non escludono la responsabilità.

Il Collegio quindi, alla luce delle suddette valutazioni, ha annullato la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili, rinviando al giudice civile per la liquidazione dei danni e delle spese.

Alcolock: al via le nuove regole

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il decreto sull’alcolock entra ufficialmente in vigore, definendo caratteristiche tecniche e modalità di installazione del dispositivo.

Il provvedimento, in vigore dal 26 luglio 2025, disciplina le caratteristiche tecniche e le modalità di installazione dell'alcolock, dispositivo che impedisce l'avviamento del motore nei veicoli quando nell'espirato del conducente viene rilevata presenza di alcol, in particolare per soggetti già condannati in via definitiva per guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l.

Obbligatorietà dell'alcolock e destinatari

L'obbligo di installazione dell'alcolock riguarda i conducenti condannati in via definitiva per guida in stato di ebbrezza con un tasso superiore a 0,8 g/l, come previsto dall'art. 125, comma 3-ter del Codice della Strada. Nello specifico:

§ per chi ha riportato un tasso tra 0,8 e 1,5 g/l, l'alcolock va installato e utilizzato obbligatoriamente per 2 anni dopo la sospensione della patente (da 6 mesi a 1 anno);
§ per valori superiori a 1,5 g/l, la durata minima dell'obbligo è di 3 anni dopo una sospensione da 1 a 2 anni, con possibilità di prolungamento da parte della Commissione Medica Locale;
§ nel corso di tale periodo, il conducente può guidare solo veicoli dotati di alcolock installato a sue spese, che impedisce l'avviamento del motore se il test dell'alito rileva presenza di alcol. Sulla patente vengono apposti i codici 68 (“niente alcool”) e 69 (“guida solo con alcolock”);
§ l'obbligo si estende a tutti i veicoli utilizzati dal soggetto sanzionato, incluse le categorie internazionali M1, M2, M3 (autovetture e autobus) e N1, N2, N3 (veicoli per trasporto merci);
§ ogni dispositivo deve essere dotato di un sigillo per evitare alterazioni o manomissioni dopo l'installazione.

Controlli e responsabilità durante la guida

In caso di controllo su strada, il conducente deve essere in grado di mostrare:

§ il dispositivo integro, sigillato e funzionante;
§ a documentazione relativa all'installazione e alla validità della taratura.
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Alcolock: al via le nuove regole

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il decreto sull’alcolock entra ufficialmente in vigore, definendo caratteristiche tecniche e modalità di installazione del dispositivo.

Il provvedimento, in vigore dal 26 luglio 2025, disciplina le caratteristiche tecniche e le modalità di installazione dellalcolock, dispositivo che impedisce lavviamento del motore nei veicoli quando nellespirato del conducente viene rilevata presenza di alcol, in particolare per soggetti già condannati in via definitiva per guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l.

Obbligatorietà dellalcolock e destinatari

Lobbligo di installazione dellalcolock riguarda i conducenti condannati in via definitiva per guida in stato di ebbrezza con un tasso superiore a 0,8 g/l, come previsto dallart. 125, comma 3-ter del Codice della Strada. Nello specifico:

§ per chi ha riportato un tasso tra 0,8 e 1,5 g/l, lalcolock va installato e utilizzato obbligatoriamente per 2 anni dopo la sospensione della patente (da 6 mesi a 1 anno);
§ per valori superiori a 1,5 g/l, la durata minima dellobbligo è di 3 anni dopo una sospensione da 1 a 2 anni, con possibilità di prolungamento da parte della Commissione Medica Locale;
§ nel corso di tale periodo, il conducente può guidare solo veicoli dotati di alcolock installato a sue spese, che impedisce lavviamento del motore se il test dellalito rileva presenza di alcol. Sulla patente vengono apposti i codici 68 (“niente alcool”) e 69 (“guida solo con alcolock”);
§ lobbligo si estende a tutti i veicoli utilizzati dal soggetto sanzionato, incluse le categorie internazionali M1, M2, M3 (autovetture e autobus) e N1, N2, N3 (veicoli per trasporto merci);
§ ogni dispositivo deve essere dotato di un sigillo per evitare alterazioni o manomissioni dopo linstallazione.
 
Controlli e responsabilità durante la guida

In caso di controllo su strada, il conducente deve essere in grado di mostrare:

§ il dispositivo integro, sigillato e funzionante;
§ a documentazione relativa allinstallazione e alla validità della taratura.

Maltrattamenti: nonostante la separazione il coniuge resta “persona della famiglia”

«Integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza».

Cass. pen., sez. VI, ud. 14 maggio 2025 (dep. 27 giugno 2025), n. 23956

La sentenza trae origine dalla condanna inflitta, in primo grado, a un imputato per atti persecutori ai danni della moglie, a seguito di comportamenti vessatori protrattisi tra la convivenza e la separazione.

La Corte d'Appello però, riqualificava i fatti come maltrattamenti in quanto «la separazione non fa venir meno la “qualifica familiare” della persona offesa».

La Suprema Corte, adita con ricorso per cassazione dal difensore del condannato, ha confermato la tesi della Corte territoriale.
In particolare, per il Collegio i giudici hanno fatto buon governo dell'indirizzo di legittimità secondo cui «le condotte vessatorie, sorte in ambito domestico e protrattesi dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, integrano il reato di maltrattamenti, e non quello di atti persecutori, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza, dal momento che la separazione è condizione che non elide lo status acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dall'art. 143, comma 2, c.c.».

Dunque, la separazione – sia di fatto che legale – non interrompe la relazione giuridica rilevante ai sensi dell'art. 572 c.p.: il vincolo familiare permane e la tutela penale si estende anche al periodo successivo alla fine della convivenza, fino al definitivo scioglimento del matrimonio. Solo con il divorzio, infatti, viene meno la qualifica di “persona della famiglia” che giustifica l'applicazione della fattispecie dei maltrattamenti.

La giurisprudenza di legittimità, richiamata dalla Corte (es. Cass. 45400/2022), ribadisce che la ratio è quella di impedire che la separazione, spesso conseguenza di condotte maltrattanti, possa costituire un “vuoto di tutela” per la vittima. L'obbligo di rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, sancito dall'art. 143, comma 2, c.c., resta operativo fino al divorzio, indipendentemente dalla cessazione della coabitazione. Il criterio temporale rilevante ai fini dell'art. 572 c.p. è lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio. Le condotte maltrattanti che si protraggano nel periodo tra separazione e divorzio sono pienamente sussumibili nella fattispecie penale, a prescindere dalla cessazione della convivenza, purché permanga il vincolo matrimoniale.
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Maltrattamenti: nonostante la separazione il coniuge resta “persona della famiglia”

«Integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza».

Cass. pen., sez. VI, ud. 14 maggio 2025 (dep. 27 giugno 2025), n. 23956

La sentenza trae origine dalla condanna inflitta, in primo grado, a un imputato per atti persecutori ai danni della moglie, a seguito di comportamenti vessatori protrattisi tra la convivenza e la separazione.

La Corte dAppello però, riqualificava i fatti come maltrattamenti in quanto «la separazione non fa venir meno la “qualifica familiare” della persona offesa».

La Suprema Corte, adita con ricorso per cassazione dal difensore del condannato, ha confermato la tesi della Corte territoriale. 
In particolare, per il Collegio i giudici hanno fatto buon governo dellindirizzo di legittimità secondo cui «le condotte vessatorie, sorte in ambito domestico e protrattesi dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, integrano il reato di maltrattamenti, e non quello di atti persecutori, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza, dal momento che la separazione è condizione che non elide lo status acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dallart. 143, comma 2, c.c.».

Dunque, la separazione – sia di fatto che legale – non interrompe la relazione giuridica rilevante ai sensi dellart. 572 c.p.: il vincolo familiare permane e la tutela penale si estende anche al periodo successivo alla fine della convivenza, fino al definitivo scioglimento del matrimonio. Solo con il divorzio, infatti, viene meno la qualifica di “persona della famiglia” che giustifica lapplicazione della fattispecie dei maltrattamenti.

La giurisprudenza di legittimità, richiamata dalla Corte (es. Cass. 45400/2022), ribadisce che la ratio è quella di impedire che la separazione, spesso conseguenza di condotte maltrattanti, possa costituire un “vuoto di tutela” per la vittima. Lobbligo di rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, sancito dallart. 143, comma 2, c.c., resta operativo fino al divorzio, indipendentemente dalla cessazione della coabitazione. Il criterio temporale rilevante ai fini dellart. 572 c.p. è lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio. Le condotte maltrattanti che si protraggano nel periodo tra separazione e divorzio sono pienamente sussumibili nella fattispecie penale, a prescindere dalla cessazione della convivenza, purché permanga il vincolo matrimoniale.

Donna morsa in strada da un cane randagio: è possibile ottenere un ristoro economico?

La persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per il risarcimento ha l'onere di provare la colpa della pubblica amministrazione ed il nesso di causa tra questa e il danno patito.
La colpa della PA non può, tuttavia, essere desunta dal mero fatto che un cane randagio abbia causato il danno, ma esige la dimostrazione della insufficiente organizzazione del servizio di prevenzione del randagismo.

Cass. civ., sez. III, sent., 23 giugno 2025, n. 16788

In un piccolo Comune pugliese una donna viene aggredita da un branco di cani randagi mentre sta camminando tranquillamente sulla pubblica via.
In quei momenti un animale riesce a morderla, provocandole lesioni poi guarite ma con postumi permanenti.
A fronte dei danni riportati, quindi, la donna contesta al Comune di «non aver garantito che l'animale randagio non arrecasse disturbo o danni alle persone nelle vie cittadine, in ottemperanza alla funzione di vigilanza e di controllo demandata agli enti civici» e di «non essersi dotato di canile dove ricoverare i cani catturati» .
A essere chiamata in causa, però, è anche l'Azienda sanitaria locale, cui, in teoria, è affidata l'attività di recupero e cattura dei cani randagi.
Per i giudici di merito, però, la richiesta di risarcimento avanzata dalla donna è priva di fondamento.
In particolare, in Tribunale è ritenuta «non dimostrata la colpa tanto del Comune quanto della Azienda sanitaria locale».
Soprattutto perché, a fronte della ipotetica responsabilità dei due enti per i danni causati da cani randagi, «è onere della persona offesa provarne la colpa» e certificare «il nesso di causa tra la condotta colposa degli enti e il danno arrecato dai cani randagi».
Per fare chiarezza, infine, i giudici del Tribunale precisano che «la prova non può consistere nella sola dimostrazione dell'aggressione canina», essendo «necessaria, invece, la dimostrazione di una condotta colposa omissiva delle pubbliche amministrazioni» .
I Giudici della Cassazione hanno respinto in via definitiva l'azione giudiziaria proposta dalla donna ed escluso ogni possibile addebito nei confronti dell'Azienda sanitaria locale e del Comune.
Questa la tesi proposta dal legale della donna: «una volta dimostrata l'avvenuta aggressione da parte di cani randagi, è onere degli enti dimostrare di avere organizzato e gestito un efficiente servizio di prevenzione del randagismo, in adempimento dei rispettivi doveri istituzionali» .
Questa visione viene respinta dalla Suprema Corte, innanzitutto perché «la presunzione di colpa non s'applica nel caso di danni provocati da cani randagi». Rispetto a tali animali, difatti, «i compiti della pubblica amministrazione sono essenzialmente di prevenzione e non di protezione, di tutela della popolazione dagli animali e non di tutela degli animali dai rischi dell'antropizzazione».
Per quanto concerne la presunta colpa del Comune, i Giudici fanno subito il punto: «la responsabilità civile per i danni causati dai cani randagi grava esclusivamente sull'ente cui le singole leggi regionali attribuiscono il compito di cattura e custodia».
A fronte della vicenda in esame, bisogna fare riferimento alla specifica legge regionale della Puglia, secondo cui «le amministrazioni comunali sono prive di legittimazione passiva in merito alla pretesa risarcitoria per i danni causati dai cani randagi».
Ciò perché «i Comuni devono, in base alla legge, limitarsi alla gestione dei canili al fine della mera accoglienza dei cani randagi recuperati, mentre al relativo ricovero, che presuppone l'attività di recupero e cattura, sono tenuti i servizi veterinari delle Aziende sanitarie locali».
Discorso più complesso, invece, per quanto concerne l'accusa rivolta dalla donna all'Azienda sanitaria locale.
In generale, «la pubblica amministrazione», ossia l'Azienda sanitaria locale, in questa vicenda, «può essere chiamata a rispondere dei danni causati da cani randagi» ma «la persona danneggiata ha da provare una condotta commissiva od omissiva dell'ente, la natura colposa di tale condotta ed il nesso causale tra tale condotta ed il danno subito» .
Sempre in generale, «è una condotta colposa della pubblica amministrazione non adempiere i doveri ad essa imposti dalla legge» .
Ragionando sulla specifica vicenda, «è onere della persona danneggiata dimostrare che la pubblica amministrazione, contro cui è rivolta la domanda di risarcimento, non abbia adempiuto gli obblighi ad essa imposti dalla legge allo scopo di prevenire il randagismo ed i danni che tale fenomeno può arrecare alle persone» .
E tale prova «può fornirsi, ad esempio, dimostrando che al servizio di prevenzione del randagismo la Azienda sanitaria locale non aveva destinato alcuna risorsa o aveva destinato risorse insufficienti, o, ancora, che il relativo ufficio esisteva solo sulla carta, o che il servizio veniva svolto in modo saltuario o non veniva svolto affatto.
Queste circostanze possono essere provate con ogni mezzo: documenti, testimoni, presunzioni, ispezioni, confessione e giuramento» .
Detto ciò, i Giudici forniscono una precisazione importante: «la prova che la pubblica amministrazione non abbia apprestato un efficace servizio di prevenzione del randagismo (e dunque la prova della condotta omissiva) non può invece trarsi dal mero fatto che un cane randagio abbia causato un danno».

Per la Corte non ci sono dubbi: «se un cittadino viene venga ferito da un cane randagio, la Azienda sanitaria locale non è tenuta ipso facto a risarcirlo» .
Ecco perché l'istanza di ristoro economico avanzata dalla cittadina pugliese va respinta, «non avendo lei provato alcuna condotta colposa omissiva o commissiva del Comune o dell'Azienda sanitaria locale», sancisce la Cassazione, la quale, in chiusura, enuncia il principio di diritto secondo cui, in materia di responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati da cani randagi, «la persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per il risarcimento ha l'onere di provare la colpa della pubblica amministrazione ed il nesso di causa tra questa e il danno patito. La colpa della pubblica amministrazione non può tuttavia essere desunta dal mero fatto che un cane randagio abbia causato il danno, ma esige la dimostrazione della insufficiente organizzazione del servizio di prevenzione del randagismo. Solo una volta fornita questa prova, il nesso di causa tra condotta omissiva e danno potrà ammettersi, anche ricorrendo al criterio cosiddetto della "concretizzazione del rischio" (il quale è criterio di spiegazione causale, e non di accertamento della colpa), in virtù del quale il fatto stesso dell'avverarsi del rischio che la norma violata mirava a prevenire è sufficiente a dimostrare che una condotta alternativa corretta avrebbe evitato il danno».
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Donna morsa in strada da un cane randagio: è possibile ottenere un ristoro economico?

La persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per il risarcimento ha lonere di provare la colpa della pubblica amministrazione ed il nesso di causa tra questa e il danno patito. 
La colpa della PA non può, tuttavia, essere desunta dal mero fatto che un cane randagio abbia causato il danno, ma esige la dimostrazione della insufficiente organizzazione del servizio di prevenzione del randagismo.

Cass. civ., sez. III, sent., 23 giugno 2025, n. 16788

In un piccolo Comune pugliese una donna viene aggredita da un branco di cani randagi mentre sta camminando tranquillamente sulla pubblica via. 
In quei momenti un animale riesce a morderla, provocandole lesioni poi guarite ma con postumi permanenti.
A fronte dei danni riportati, quindi, la donna contesta al Comune di «non aver garantito che lanimale randagio non arrecasse disturbo o danni alle persone nelle vie cittadine, in ottemperanza alla funzione di vigilanza e di controllo demandata agli enti civici» e di «non essersi dotato di canile dove ricoverare i cani catturati» .
A essere chiamata in causa, però, è anche lAzienda sanitaria locale, cui, in teoria, è affidata lattività di recupero e cattura dei cani randagi.
Per i giudici di merito, però, la richiesta di risarcimento avanzata dalla donna è priva di fondamento. 
In particolare, in Tribunale è ritenuta  «non dimostrata la colpa tanto del Comune quanto della Azienda sanitaria locale». 
Soprattutto perché, a fronte della ipotetica responsabilità dei due enti per i danni causati da cani randagi, «è onere della persona offesa provarne la colpa» e certificare «il nesso di causa tra la condotta colposa degli enti e il danno arrecato dai cani randagi».
Per fare chiarezza, infine, i giudici del Tribunale precisano che «la prova non può consistere nella sola dimostrazione dellaggressione canina», essendo «necessaria, invece, la dimostrazione di una condotta colposa omissiva delle pubbliche amministrazioni» .
I Giudici della Cassazione hanno respinto in via definitiva lazione giudiziaria proposta dalla donna ed escluso ogni possibile addebito nei confronti dellAzienda sanitaria locale e del Comune.
Questa  la tesi proposta dal legale della donna: «una volta dimostrata lavvenuta aggressione da parte di cani randagi, è onere degli enti dimostrare di avere organizzato e gestito un efficiente servizio di prevenzione del randagismo, in adempimento dei rispettivi doveri istituzionali» .
Questa visione viene respinta dalla Suprema Corte, innanzitutto perché «la presunzione di colpa non sapplica nel caso di danni provocati da cani randagi». Rispetto a tali animali, difatti, «i compiti della pubblica amministrazione sono essenzialmente di prevenzione e non di protezione, di tutela della popolazione dagli animali e non di tutela degli animali dai rischi dellantropizzazione».
Per quanto concerne la presunta colpa del Comune, i Giudici fanno subito il punto: «la responsabilità civile per i danni causati dai cani randagi grava esclusivamente sullente cui le singole leggi regionali attribuiscono il compito di cattura e custodia». 
A fronte della vicenda in esame, bisogna fare riferimento alla specifica legge regionale della Puglia, secondo cui «le amministrazioni comunali sono prive di legittimazione passiva in merito alla pretesa risarcitoria per i danni causati dai cani randagi». 
Ciò perché «i Comuni devono, in base alla legge, limitarsi alla gestione dei canili al fine della mera accoglienza dei cani randagi recuperati, mentre al relativo ricovero, che presuppone lattività di recupero e cattura, sono tenuti i servizi veterinari delle Aziende sanitarie locali».
Discorso più complesso, invece, per quanto concerne laccusa rivolta dalla donna allAzienda sanitaria locale.
In generale, «la pubblica amministrazione», ossia lAzienda sanitaria locale, in questa vicenda, «può essere chiamata a rispondere dei danni causati da cani randagi» ma «la persona danneggiata ha da provare una condotta commissiva od omissiva dellente, la natura colposa di tale condotta ed il nesso causale tra tale condotta ed il danno subito» .
Sempre in generale, «è una condotta colposa della pubblica amministrazione non adempiere i doveri ad essa imposti dalla legge» . 
Ragionando sulla specifica vicenda, «è onere della persona danneggiata dimostrare che la pubblica amministrazione, contro cui è rivolta la domanda di risarcimento, non abbia adempiuto gli obblighi ad essa imposti dalla legge allo scopo di prevenire il randagismo ed i danni che tale fenomeno può arrecare alle persone» .
E tale prova «può fornirsi, ad esempio, dimostrando che al servizio di prevenzione del randagismo la Azienda sanitaria locale non aveva destinato alcuna risorsa o aveva destinato risorse insufficienti, o, ancora, che il relativo ufficio esisteva solo sulla carta, o che il servizio veniva svolto in modo saltuario o non veniva svolto affatto. 
Queste circostanze possono essere provate con ogni mezzo: documenti, testimoni, presunzioni, ispezioni, confessione e giuramento» .
Detto ciò, i Giudici forniscono una precisazione importante: «la prova che la pubblica amministrazione non abbia apprestato un efficace servizio di prevenzione del randagismo (e dunque la prova della condotta omissiva) non può invece trarsi dal mero fatto che un cane randagio abbia causato un danno». 

Per la Corte non ci sono dubbi: «se un cittadino viene venga ferito da un cane randagio, la Azienda sanitaria locale non è tenuta ipso facto a risarcirlo» .
Ecco perché listanza di ristoro economico avanzata dalla cittadina pugliese va respinta, «non avendo lei provato alcuna condotta colposa omissiva o commissiva del Comune o dellAzienda sanitaria locale», sancisce la Cassazione, la quale, in chiusura, enuncia il principio di diritto secondo cui, in materia di responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati da cani randagi, «la persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per il risarcimento ha lonere di provare la colpa della pubblica amministrazione ed il nesso di causa tra questa e il danno patito. La colpa della pubblica amministrazione non può tuttavia essere desunta dal mero fatto che un cane randagio abbia causato il danno, ma esige la dimostrazione della insufficiente organizzazione del servizio di prevenzione del randagismo. Solo una volta fornita questa prova, il nesso di causa tra condotta omissiva e danno potrà ammettersi, anche ricorrendo al criterio cosiddetto della concretizzazione del rischio (il quale è criterio di spiegazione causale, e non di accertamento della colpa), in virtù del quale il fatto stesso dellavverarsi del rischio che la norma violata mirava a prevenire è sufficiente a dimostrare che una condotta alternativa corretta avrebbe evitato il danno».

Con il raggiungimento della maggiore età del figlio la detrazione Irpef spetta al genitore affidatario nella stessa misura.

Al compimento del diciottesimo anno di età, il coniuge affidatario può beneficiare della detrazione per i figli a carico nella stessa misura di quando erano minorenni, potendo perciò̀ usufruirne al 100% senza dover siglare un nuovo accordo con l'ex coniuge.

Cass. civ., sez. trib., ord., 7 giugno 2025, n. 15224

Lo ha stabilito la Cassazione, con l'ordinanza n. 15224/2025, che ha accolto il ricorso di una madre, unica affidataria dei figli, contro una cartella di pagamento di 1.104,83 euro emessa nel 2012 dall'Agenzia delle Entrate: alla donna veniva contestato il fatto che avesse fruito integralmente della detrazione, senza ripartirla al 50% con il coniuge separato, essendo i figli diventati maggiorenni, in assenza di un nuovo accordo in merito.

Inizialmente, la Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone le aveva dato ragione, ma in secondo grado, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, aveva affermato la piena validità ed efficacia della cartella, «tenuto anche conto che l'altro coniuge aveva provveduto a detrarre la sua quota del 50% delle spese per i carichi di famiglia nella propria dichiarazione dei redditi».

La Suprema Corte, nell'accogliere il ricorso, afferma che quanto sostenuto dalla Commissione Tributaria «non trova fondamento in alcuna norma di legge o principio del diritto tributario così come di quello di famiglia», e «contrasta con la normativa di prassi emanata dallo stesso Ente impositore», che, nella circolare n. 15/e del 2007, precisa: «si ritiene che i genitori possano continuare, salvo diverso accordo, a fruire per il figlio maggiorenne e non portatore di handicap, della detrazione ripartita nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio».

Inoltre, i Giudici ricordano che l'art. 12 del Tuir, nella versione applicabile ratione temporis, dispone «1. Dall'imposta lorda si detraggono per carichi di famiglia i seguenti importi: […] c) 800 euro per ciascun figlio […]. In caso di separazione legale ed effettiva o di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, la detrazione spetta, in mancanza di accordo, al genitore affidatario».

Nel decidere la controversia, pertanto, i giudici del rinvio dovranno attenersi al seguente principio di diritto: «la detrazione fiscale per i figli a carico, prevista dall'art. 12, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992 è riconosciuta ai genitori, legalmente separati o divorziati, nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio, quando quest'ultimo raggiunge la maggiore età, senza che sia necessario un accordo in tal senso tra i genitori».
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Con il raggiungimento della maggiore età del figlio la detrazione Irpef spetta al genitore affidatario nella stessa misura.

Al compimento del diciottesimo anno di età, il coniuge affidatario può beneficiare della detrazione per i figli a carico nella stessa misura di quando erano minorenni, potendo perciò̀ usufruirne al 100% senza dover siglare un nuovo accordo con lex coniuge.

Cass. civ., sez. trib., ord., 7 giugno 2025, n. 15224

Lo ha stabilito la Cassazione, con lordinanza n. 15224/2025, che ha accolto il ricorso di una madre, unica affidataria dei figli, contro una cartella di pagamento di 1.104,83 euro emessa nel 2012 dallAgenzia delle Entrate: alla donna veniva contestato il fatto che avesse fruito integralmente della detrazione, senza ripartirla al 50% con il coniuge separato, essendo i figli diventati maggiorenni, in assenza di un nuovo accordo in merito.

Inizialmente, la Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone le aveva dato ragione, ma in secondo grado, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, aveva affermato la piena validità ed efficacia della cartella, «tenuto anche conto che laltro coniuge aveva provveduto a detrarre la sua quota del 50% delle spese per i carichi di famiglia nella propria dichiarazione dei redditi». 

La Suprema Corte, nellaccogliere il ricorso, afferma che quanto sostenuto dalla Commissione Tributaria «non trova fondamento in alcuna norma di legge o principio del diritto tributario così come di quello di famiglia», e «contrasta con la normativa di prassi emanata dallo stesso Ente impositore», che, nella circolare n. 15/e del 2007, precisa: «si ritiene che i genitori possano continuare, salvo diverso accordo, a fruire per il figlio maggiorenne e non portatore di handicap, della detrazione ripartita nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio».

Inoltre, i Giudici ricordano che lart. 12 del Tuir, nella versione applicabile ratione temporis, dispone «1. Dallimposta lorda si detraggono per carichi di famiglia i seguenti importi: […] c) 800 euro per ciascun figlio […]. In caso di separazione legale ed effettiva o di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, la detrazione spetta, in mancanza di accordo, al genitore affidatario».

Nel decidere la controversia, pertanto, i giudici del rinvio dovranno attenersi al seguente principio di diritto: «la detrazione fiscale per i figli a carico, prevista dallart. 12, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992 è riconosciuta ai genitori, legalmente separati o divorziati, nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio, quando questultimo raggiunge la maggiore età, senza che sia necessario un accordo in tal senso tra i genitori».

Rimborso spese legali per il dipendente pubblico: necessaria la preventiva comunicazione all’ente del difensore scelto

Nel pubblico impiego contrattualizzato, l’ente non deve rimborsare le spese legali se il dipendente sceglie e nomina il difensore senza preventiva comunicazione all’amministrazione o si limita a informarla dopo.

Cass. civ., sez. lav., ord., 9 giugno 2025, n. 15279

I Giudici hanno esaminato la questione se la normativa regionale siciliana (art. 39 l.r. n. 145/1980 e art. 24 l.r. n. 30/2000), che prevede il rimborso delle spese legali ai dipendenti dichiarati esenti da responsabilità, deroghi o meno alle norme nazionali (art. 67 d.P.R. n. 268/1987, art. 28 CCNL 14 settembre 2000) che impongono l'obbligo di comunicare preventivamente all'ente locale il nominativo del difensore di fiducia, consentendo così all'amministrazione di esprimere il proprio gradimento.

La Cassazione ha ribadito che la contrattazione collettiva nazionale, ove applicabile, non può essere derogata dalla legge regionale sul punto e che il diritto al rimborso delle spese legali non è assoluto: esso richiede il rispetto di condizioni precise, tra cui anche la comunicazione preventiva del nominativo del difensore. Solo così l'ente può verificare l'assenza di conflitto di interessi e tutelare i propri diritti e interessi.

Alla luce di tali considerazioni, dunque, la Corte ha rigettato il ricorso enunciando il seguente principio di diritto:

«In tema di pubblico impiego contrattualizzato e di oneri di assistenza legale in conseguenza di fatti commessi dal dipendente di un ente locale nell’espletamento del servizio e in adempimento di obblighi di ufficio, l’amministrazione pubblica non è tenuta a rimborsarlo delle spese necessarie per assicurare la difesa legale, ove egli abbia unilateralmente provveduto alla scelta e alla nomina del legale di fiducia, senza la previa comunicazione all’amministrazione stessa, o qualora, dopo avere effettuato la nomina, si limiti a comunicarla al detto ente.»
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Rimborso spese legali per il dipendente pubblico: necessaria la preventiva comunicazione all’ente del difensore scelto

Nel pubblico impiego contrattualizzato, l’ente non deve rimborsare le spese legali se il dipendente sceglie e nomina il difensore senza preventiva comunicazione all’amministrazione o si limita a informarla dopo.

Cass. civ., sez. lav., ord., 9 giugno 2025, n. 15279

I Giudici hanno esaminato la questione se la normativa regionale siciliana (art. 39 l.r. n. 145/1980 e art. 24 l.r. n. 30/2000), che prevede il rimborso delle spese legali ai dipendenti dichiarati esenti da responsabilità, deroghi o meno alle norme nazionali (art. 67 d.P.R. n. 268/1987, art. 28 CCNL 14 settembre 2000) che impongono lobbligo di comunicare preventivamente allente locale il nominativo del difensore di fiducia, consentendo così allamministrazione di esprimere il proprio gradimento.

La Cassazione ha ribadito che la contrattazione collettiva nazionale, ove applicabile, non può essere derogata dalla legge regionale sul punto e che il diritto al rimborso delle spese legali non è assoluto: esso richiede il rispetto di condizioni precise, tra cui anche la comunicazione preventiva del nominativo del difensore. Solo così lente può verificare lassenza di conflitto di interessi e tutelare i propri diritti e interessi.

Alla luce di tali considerazioni, dunque, la Corte ha rigettato il ricorso enunciando il seguente principio di diritto:

«In tema di pubblico impiego contrattualizzato e di oneri di assistenza legale in conseguenza di fatti commessi dal dipendente di un ente locale nell’espletamento del servizio e in adempimento di obblighi di ufficio, l’amministrazione pubblica non è tenuta a rimborsarlo delle spese necessarie per assicurare la difesa legale, ove egli abbia unilateralmente provveduto alla scelta e alla nomina del legale di fiducia, senza la previa comunicazione all’amministrazione stessa, o qualora, dopo avere effettuato la nomina, si limiti a comunicarla al detto ente.»

È sufficiente un episodio di molestie verbali ai danni di una collega per legittimare la sospensione del lavoratore ?

Irrilevante la storia professionale del lavoratore colpevole di molestie sessuali verbali nei confronti di una collega: anche un singolo episodio può legittimare la sanzione disciplinare adottata dall’azienda.

Cass. civ., sez. lav., ord., 11 giugno 2025, n. 15549

A finire sotto accusa è un lavoratore a cui viene contestato di avere volutamente rivolto frasi a sfondo sessuale ad una collega e di avere perciò arrecato a quest’ultima non poco disagio.
L'azienda sospende dal lavoro e dalla retribuzione il soggetto per 8 giorni.

Tale sanzione, oggetto di ricorso da parte del lavoratore veniva poi ritenuta legittima anche dai giudici di merito, i quali sottolineano la gravità della condotta, consistente in «molestie sessuali verbali, nel luogo di lavoro, nei confronti di una collega» certificata da molteplici testimonianze, definendo «adeguata la massima sanzione conservativa, a nulla rilevando la pregressa storia professionale del dipendente».

Per i giudici di Cassazione «la contestazione è sufficientemente determinata, sia sotto il profilo della condotta contestata che delle circostanze di tempo e di luogo in cui essa si era verificata».

I magistrati ritengono irrilevante il riferimento difensivo alla «storia lavorativa del dipendente» e all’«ambiente ostile in cui operava».
Legittimamente, difatti, ci si è soffermati sull’«unico e residuo fatto contestato» al lavoratore e su cui è stata «ritenuta raggiunta piena prova».
E «rispetto alla vicenda oggetto di contestazione disciplinare, ossia l’aver molestato verbalmente con implicazioni sessuali una collega di lavoro, risulta del tutto ragionevole concentrare l’attenzione sullo specifico addebito ed impostare la valutazione essenzialmente su di essa», chiosano i magistrati di Cassazione, i quali, anche tenendo presente «il clima di disagio arrecato alla vittima», ritengono sacrosanto «valorizzare la rilevanza disciplinare del nucleo del fatto imputato al lavoratore, fatto che, anche considerato nella sua singolarità, giustifica l’entità della sanzione inflitta» dall’azienda.
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È sufficiente un episodio di molestie verbali ai danni di una collega per legittimare la sospensione del lavoratore ?

Irrilevante la storia professionale del lavoratore colpevole di molestie sessuali verbali nei confronti di una collega: anche un singolo episodio può legittimare la sanzione disciplinare adottata dall’azienda.

Cass. civ., sez. lav., ord., 11 giugno 2025, n. 15549

A finire sotto accusa è un lavoratore a cui viene contestato di avere volutamente rivolto frasi a sfondo sessuale ad una collega e di avere perciò arrecato a quest’ultima non poco disagio. 
Lazienda sospende dal lavoro e dalla retribuzione il soggetto per 8 giorni. 

Tale sanzione, oggetto di ricorso da parte del lavoratore veniva poi ritenuta legittima anche dai giudici di merito, i quali sottolineano la gravità della condotta, consistente in «molestie sessuali verbali, nel luogo di lavoro, nei confronti di una collega» certificata da molteplici testimonianze, definendo «adeguata la massima sanzione conservativa, a nulla rilevando la pregressa storia professionale del dipendente».

Per i giudici di Cassazione «la contestazione è sufficientemente determinata, sia sotto il profilo della condotta contestata che delle circostanze di tempo e di luogo in cui essa si era verificata». 

I magistrati ritengono irrilevante il riferimento difensivo alla «storia lavorativa del dipendente» e all’«ambiente ostile in cui operava». 
Legittimamente, difatti, ci si è soffermati sull’«unico e residuo fatto contestato» al lavoratore e su cui è stata «ritenuta raggiunta piena prova». 
E «rispetto alla vicenda oggetto di contestazione disciplinare, ossia l’aver molestato verbalmente con implicazioni sessuali una collega di lavoro, risulta del tutto ragionevole concentrare l’attenzione sullo specifico addebito ed impostare la valutazione essenzialmente su di essa», chiosano i magistrati di Cassazione, i quali, anche tenendo presente «il clima di disagio arrecato alla vittima», ritengono sacrosanto «valorizzare la rilevanza disciplinare del nucleo del fatto imputato al lavoratore, fatto che, anche considerato nella sua singolarità, giustifica l’entità della sanzione inflitta» dall’azienda.
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