Messaggi offensivi su WhatsApp: ipotizzabile la diffamazione

MESSAGGI OFFESIVI SU WHATSAPP: IPOTIZZABILE LA DIFFAMAZIONE
 
La Corte ha escluso, però, l’aggravante prevista per l’uso di un mezzo di pubblicità
Preso in esame il caso relativo a un militare dell’Arma dei Carabinieri finito sotto accusa per avere comunicato con altri militari, in una chat creata tramite WhatsApp, inviando loro molteplici messaggi offensivi nei confronti di altri militari.
 
Cass. pen., sez I, ud. 19 maggio 2023 (dep. 14 settembre 2023), n. 37618

I Fatti

Il caso approdato in Cassazione riguarda il contesto militare.
A finire sotto accusa è un esponente dell’Arma dei Carabinieri: nello specifico, gli viene contestato di avere comunicato con altri militari, in una chat creata tramite WhatsApp, inviando loro molteplici messaggi offensivi nei confronti di altri militari.
Codice penale militare di pace alla mano, il reato ipotizzato è quello di diffamazione aggravata dall’uso di un mezzo di pubblicità.
In primo grado i giudici militari ritengono evidente la responsabilità penale dell’esponente dell’Arma dei Carabinieri e lo condannano alla pena di cinque mesi e cinque giorni di reclusione militare, con l’aggiunta dell’annessa responsabilità civile nei confronti dei militari dileggiati nei messaggi condivisi nella chat.
In secondo grado, invece, i giudici militari dichiarano il non doversi procedere per «mancanza della richiesta di procedimento».
In questa ottica è decisivo il riferimento al mancato riconoscimento dell’uso di un mezzo di pubblicità.
In sostanza, «punto essenziale della decisione di secondo grado, fermo restando il contenuto diffamatorio di taluni dei messaggi inviati in chat, riguarda l’aggravante dell’aver recato offesa con un mezzo di pubblicità».
I giudici addebitano al militare dell’Arma solo una diffamazione non aggravata che non è procedibile poiché si è appurato che «la richiesta di procedimento, condizione di procedibilità, non è stata formulata».
Chiara la posizione assunta dai giudici della Corte militare d’appello: «l’avvenuto utilizzo di una chat di Whatsapp – cui erano iscritte in tutto sette persone, nel caso specifico – non integra l’ipotesi del ricorso a un mezzo di pubblicità» a fronte della condivisione di messaggi offensivi rivolti a soggetti non inclusi nella chat. In sostanza, secondo i giudici militari d’Appello «è da escludersi che l’utilizzo della chat ristretta possa far ritenere integrata l’ipotesi dell’offesa recata con un mezzo di pubblicità», non rilevando che «il messaggio offensivo (destinato ad un numero ristretto di persone) possa essere inoltrato ad altri soggetti, posto che simile azione sarebbe opera del destinatario e non del mittente».
L’accento viene dunque posto «non tanto sul mezzo tecnologico utilizzato – potenzialmente idoneo a concretizzare una diffusione ampia dei contenuti lesivi – quanto sul numero ristretto – sette soggetti, come detto – di componenti della chat».

La decisione della Cassazione

Infruttuoso il ricorso proposto in Cassazione dalla Procura Militare, poiché i Giudici di terzo grado ritengono corretta e condivisibile la valutazione compiuta in Appello.
In premessa viene ricordato che «la caratteristica essenziale della diffamazione sta nella offesa della reputazione altrui in un contesto comunicativo» e quindi è necessario che la comunicazione avvenga «verso più persone – almeno due – ed in assenza del soggetto offeso».
Può parlarsi poi di diffamazione aggravata a fronte dell’«utilizzo del mezzo della stampa o di qualsiasi altro mezzo di pubblicità», aggiungono i Giudici, i quali precisano poi che la ratio di tale aggravante «va individuata nella particolare diffusività del mezzo utilizzato, sicché l’offesa tende a raggiungere un numero cospicuo e indeterminato di persone».
In questo quadro va inserita però l’evoluzione tecnologica che «ha consentito di ampliare le forme di comunicazione tramite la rete internet, che va ritenuta tendenzialmente uno strumento che rientra nella previsione di legge ove si evocano altri mezzi di pubblicità», osservano i Giudici.
Il riferimento è in particolare a ciò che avviene quando «un contenuto lesivo viene reso pubblico» su un qualsiasi sito internet ad accesso libero», poiché «la libertà dell’accesso al sito che contiene la comunicazione diffamatoria è esattamente parificabile alla scelta di consultazione di una stampa cartacea».
Ma «gli strumenti di comunicazione digitale non sono tutti uguali e non funzionano tutti nel medesimo modo».
E in particolare «una chat dell’applicativo Whatsapp è, per le sue caratteristiche peculiari, uno strumento di comunicazione di certo agevolante ma al contempo ristretto, nel senso che il messaggio – di testo o immagine che sia – raggiunge esclusivamente i soggetti iscritti (e reciprocamente accettatisi) alla medesima chat», chiariscono i Giudici.
Tuttavia, «vi è una rilevante diversità – esclusivamente ai fini della integrazione della aggravante relativa all’uso di un mezzo di pubblicità – tra l’utilizzo di un social – strumento che si rivolge, per definizione, ad una ampia platea di persone previamente abilitate dal titolare della pagina a consultarne i contenuti, con possibilità di riproporre i testi o le immagini sulla propria bacheca, sì da dare luogo di fatto ad una forma di diffusione incontrollata – e l’utilizzo di una chat ristretta di messaggistica», osservano i Giudici.
E in questa ottica «ad essere rilevante non è il numero di iscritti alla chat – davvero poco significativo, nel caso specifico – quanto la conformazione tecnica del mezzo, tesa a realizzare uno scambio di comunicazioni che resta, in tutta evidenza, riservato».
In conclusione, «la diffusione del messaggio a più soggetti – cioè gli iscritti alla chat – avviene, in altre parole, in un contesto informatico che se, da un lato, consente la rapida divulgazione del testo, dall’altro non determina la perdita di una essenziale connotazione di riservatezza della comunicazione, destinata ad un numero identificato e previamente accettato di persone», concludono i giudici di Cassazione.
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Avv. Francesco Pavan
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